Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

Prima parte (di due)

     Mi piacerebbe raccontare che il mio amico Giorgio Quadrone ama gli animali. Però amare è un verbo importante, impegnativo, esagerato nel suo caso, quindi mi limito ad affermare che gli animali gli sono simpatici, quanto meno i cani, e questi più degli esseri umani.

     Un esempio: non manca mai di accarezzare un cane a passeggio. Voglio dire che Giorgio, quando incontra un amico che porta a spasso il cane, trova evidentemente l’animale molto più simpatico del padrone: infatti all’animale dedica smancerie varie, carezze e grattatine, mentre all’amico offre soltanto un saluto e quattro chiacchiere sul tempo, tutt’al più si informa della sua salute (della quale non gli importa nulla), ma non gli viene nessuna voglia di grattargli la testa né di accarezzargli la schiena come fa con il cane.

   Altro esempio: una domenica ero ospite a casa sua. Dopo un ottimo pranzo, mentre la moglie rigovernava la sala, mi fece accomodare in salotto per offrirmi il caffè e il digestivo e, come facciamo un po’ tutti in queste occasioni, accese il televisore. Stava cominciando proprio allora una delle tante repliche del Bambi di Walt Disney (ce n’è almeno una all’anno, immancabile nel periodo natalizio, ma non solo) e lui s’incantò a vedere il film dimenticando tutto: il caffè, il digestivo e anche la mia presenza. Seguì tutta la storia appassionatamente sorridendo per le buffe avventure di Bambi cucciolo e partecipò alla sua trasformazione in cerbiatto adulto e autorevolmente cornuto. Pianse calde lacrime per la morte della mamma, quella di Bambi ovviamente. Io non lo avevo mai visto piangere così, neppure ai funerali della mamma… in questo caso intendo la sua, di Giorgio.

     E non c’è serie TV di animali, da Lassie a Rin Tin Tin, da Rex a Flipper, di cui lui abbia perso una puntata.

     Ora è ovvio che il lettore mi chieda: “Ma questo Giorgio, così amico degli animali, ne ha qualcuno o ne ha avuto almeno uno in passato?”

     E allora gli rispondo: Giorgio ha sempre desiderato di avere un cane o almeno un gatto, ma ha sempre trovato opposizione in famiglia. Finché visse da scapolo con i genitori non poté perché la madre era allergica a tutti i peli animali meno quelli del marito pelosissimo, un tipo alla Karl Marx cioè capellone e barbuto. Valle a capire le donne! Dopo che si fu sposato, ebbe il veto della moglie che considerava gli animali da compagnia una causa di fastidi, sporcizia, malattie e pure di spese ingiustificate. Magari un paio di galline che fanno le uova, quelle sì, lei le avrebbe tenute in un angolo del giardino, ma questo era condominiale e gli altri inquilini non lo permettevano.

     Però Giorgio Quadrone una volta ha avuto un gatto e ora ne racconto la storia.

                                                                         *     *     *

     La famiglia Quadrone, cioè il mio amico Giorgio, la moglie Cecilia e la figlia Marina abitano in una piccola palazzina di quattro appartamenti, due al piano terra e due al primo piano. Per la precisione i Quadrone abitano al piano terra e hanno accesso diretto al giardino condominiale.

     Circa un anno fa, una domenica mattina, Giorgio se ne stava stravaccato in soggiorno seguendo affascinato la televisione che mandava in onda un raro documentario sul ‘latrodectus mactans’, ma ne fu cacciato via dalla moglie che non voleva vedere quelle immagini perché soffriva di aracnofobia. Devo chiarire, per chi non lo conosce, che il ‘latrodectus mactans’ è un grosso ragno, quello conosciuto come ‘vedova nera’.

     Spense dunque il televisore e uscì per andare in giardino ad ammirare dal vivo qualche esemplare del più modesto ‘phalangium opilio’ (ragno campagnolo), ma fu costretto a fermarsi sull’uscio perché a complicargli il passaggio c’era un grosso gatto rossiccio steso di traverso sullo zerbino.

     L’animale aveva un aspetto orribile: il pelo era sporco e arruffato e il muso distorto con la mascella probabilmente fratturata, la lingua pendeva fuori dalla bocca sanguinante e deformata. Stava immobile, adagiato su un fianco, gli occhi sbarrati e fissi. Lo si sarebbe potuto credere morto se non fosse stato per il sollevarsi e abbassarsi del ventre, segno di una respirazione affannosa e difficile, ma tuttavia ritmicamente regolare.

     Era evidente che aveva subito un trauma: era stato investito da un’auto o percosso sul muso con un bastone, ma aveva avuto comunque la forza di trascinarsi fin lì, dove però poi era svenuto. O forse qualcuno ce lo aveva portato?

     “Perché proprio a me, qui? E adesso che faccio?” si chiese Giorgio incerto ma impietosito.

     Ci pensò qualche attimo, quindi prese uno scatolone, lo imbottì con una vecchia copertina di morbido ‘pile’, una reliquia di quando la figlia Marina era un bimba, e ci trasferì con delicatezza il gatto che non accennò alcuna reazione.

     Portò quindi lo scatolone in casa. La moglie Cecilia lo vide, inorridì ed esclamò:

   “Fuori da casa mia quella bestiaccia!”

     La figlia, attirata da quel trambusto, guardò e disse:

   “Povero micetto… che pena! Chi gli ha fatto tanto male? Tu, papà? Curiamolo… anzi ci penso io a curarlo.”

     “Manco per niente! Buttatelo fuori, che si arrangi, o portatelo da un veterinario… e lasciateglielo...” replicò Cecilia.

     “Ma è domenica e la clinica veterinaria è sicuramente chiusa…” osservò Giorgio.

     “Allora datelo a qualche gattara. So che ce n’è una qui vicino che chiamano… mi pare… ‘Gisella la gattara’, appunto …”

     “No, ho detto che ci penso io!” concluse Marina che, come capita spesso ai giovani, era tanto impulsiva e volonterosa quanto incompetente per la bisogna di quel momento.

     Cecilia, che era stata a suo tempo una femminista intollerante ma poi si era convertita alla democrazia parlamentare, ragionò così: “Mi hanno messa in minoranza e devo far finta di accettare; ma, se quella bestiaccia sopravvive, mica la vorranno adottare…”. Quindi ammutolì indispettita preparandosi a fare un’opposizione dura e puntigliosa come fanno le minoranze nelle assemblee, dal parlamento al condominio, e perciò elaborò mentalmente tutti i cavilli del diritto familiare da utilizzare appena ci fosse stata da prendere una ulteriore decisione a proposito di quell’ospite che per il momento tollerava, ma era per lei indesiderato come un profugo extracomunitario e altrettanto sgradito.

     Però in pratica, dopo quella discussione, nessuno dei tre fece più nulla per curare quel povero gatto perché nessuno di loro sapeva come curarlo. Decisero di lasciar fare alla natura perché, come osservò saggiamente Cecilia, la natura è notoriamente molto buona con i gatti: è vero o no che gli garantisce sette vite? Pareva improbabile che quel gatto le avesse già vissute tutte. Quindi sarebbe guarito da solo, bastava ospitarlo per il giusto tempo, cioè il minimo possibile.

     E infatti dopo una mezz’ora il gatto si riprese alquanto, assunse la posizione a sfinge e cominciò a lamentarsi.

     “Avrà fame? Diamogli della carne. I gatti ne sono ghiotti…” disse Giorgio.

     “Come può mangiare con la bocca in quelle condizioni?” obiettò Marina e ripeté il suo proposito scandendo con fermezza le parole: “Ci - penso - io! Ho - detto - che - ci - penso - io.”  

     Ci pensò infatti e Il suo pensare si concretizzò nel prendere un bicchiere di latte e un cucchiaino e nell’imboccare Il poveretto. Il latte finì in gran parte a infradiciare la copertina, ma il gatto riuscì a berne un po’, quindi, rinfrancato, si mise a leccare la coperta.

     (Continua e finisce domani)