Montefiascone L'OPINIONE
Giuseppe Bracchi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

1958 – 2018: due date storiche almeno per l’Italia calcistica. Nel 1958 si giocavano i Mondiali in Svezia. L’Italia non partecipò. Fu eliminata agli spareggi dall’Irlanda del Nord.

Il prossimo 2018 l’Italia non parteciperà ai Mondiali di Russia. Sono passati 60 anni da quell’infausto 1958. Ma un altro infausto spareggio, proprio quello con la Svezia, ci condannerà all’esilio da una delle competizioni più prestigiose a livello calcistico. Corsi e ricorsi storici.

Peraltro quello svedese fu il primo Mondiale assegnato al Brasile, non un Brasile qualunque, ma il Brasile astrale di Didì, Vavà, Zagalo, Garrincha e del 17enne esordiente Pelè che al termine della finale con i padroni di casa svedesi sonoramente sconfitti (5-2 il risultato finale), si sciolse in lacrime preso in braccio dai suoi compagni della selecao.

Troppo Brasile per quella Svezia, dove pure militavano calciatori come Liedholm e Nordhal, entrambi conosciuti e ricordati dagli sportivi italiani per la loro militanza nel Milan.

Sono passati, dunque, sessant’anni e la Svezia dopo un periodo di anonimato da quel 1958, confinata nel limbo dei ricordi, come l’Araba fenice, è improvvisamente risorta sulle ceneri dei ricordi e dei fasti passati, castigando l’Italia.

Ulteriore segno di un decadimento sportivo, che è altrettanto politico, economico e sociale.

A proposito di barbari costumi: che brava questa Milano da bere che non trova nulla di meglio da fare che fischiare l’inno nazionale svedese.

Accadde pure con la Francia di Domenech, un allenatore che pur non ispirando simpatia, mi chiedo quale legame avesse con le note della Marianna.

Non si fischiano gli inni nazionali.

Rappresentano il cuore in musica di una nazione, le sue tradizioni, le sue vittorie e le sue sconfitte, la sua lingua ed i suoi costumi, il suo patrimonio storico e culturale.

Viepiù la Svezia, popolo pacifico e laborioso, con i quali tanti ricordi ci legano, soprattutto con la terra di Tuscia per la presenza di Re Gustavo Adolfo, appassionato archeologo ed etruscologo.

Ma tant’è.

Da una nazione che baratta Virgilio e Dante con gli smartphone, che cosa dobbiamo aspettarci?

Già mi par di udire indignato il carme leopardiano, tutto ispirato fin dal suo esordio al Canzoniere di Petrarca: “O patria mia, vedo le mura e gli archi /E le colonne e i simulacri antichi / Torri degli avi nostri / ma la gloria non vedo...”.

Che poi fa il paio (sarà forse un caso?) con l’altro canto che il poeta di Recanati dedica ad un Vincitore nel pallone, là dove esaltandone le giovanili doti e le virtù, lo innalza a simbolo di una italianità il cui favore domanda “l’echeggiante Arena e circo”, così che “rigoglioso dell’età novella / a te fremendo appella / Ai fatti illustri il popolar favore / Oggi la patria cara / Gli antichi esempi a rinnovar prepara”.

Chissà quali spunti trarrebbero oggi dal canto appena citato Tavecchio e soci, che si spera vogliano unirsi, valigie alla mano, col dimissionario Giampiero Ventura.

Perché se Ventura ha le sue responsabilità e ce l’ha tutte, non di meno gli alti vertici del calcio italiano ne condividono, fra i primi, le infauste sorti.

Al termine della gara con la Svezia, ascoltavo amareggiato i commenti di chi chiedeva a gran voce di azzerare un mondo calcistico in lento decadimento come quello italiano, a cominciare dalle scuole calcio, dove si consumano spesso in un clima assai poco idilliaco, i rapporti tra genitori e figli e tra genitori e gli stessi responsabili di quelle fucine calcistiche, dove alla fine e non di rado finiscono col prevalere tutt’altri interessi.

Troppe manovre extracalcistiche dominano ormai da lungo tempo il calcio italiano, in specie quelli economici e quelli legati allo strapotere dei club.

Nessuno nega che l’economia e la moneta che ne rappresenta il valore di scambio, abbiano un ruolo importante anche nel calcio. Ci mancherebbe altro. Ma la moneta non può diventare il valore preponderante, per manovre di basso profilo o interessi di bottega. C’è anche bisogno – ed oggi più che mai – di solidi valori morali in famiglia come nel lavoro, in politica come nei rapporti umani e sociali, nello sport come nell’economia stessa, dove da tempo si levano voci accorate come quella del prof. Giulio Sapelli per un dialogo attuale sull’etica.

In una pagina delle opere forse meno conosciute di Charles Péguy – L’argent – ma non per questo meno bella e, a mio avviso, tremendamente attuale, si legge: “Poiché l’apparecchio di misura, di scambio e di valutazione ha invaso tutto il valore che doveva servire a misurare, scambiare, valutare. Lo strumento è diventato la materia e l’oggetto e il mondo”.

Chissà che non sia anche questa una delle tante lezioni che ci è giunta e ci giunge dall’eliminazione degli azzurri ai Mondiali di Russia 2018?