Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto - Quinto racconto - Sesto racconto e fine della Prima parte - Settimo racconto, primo della Seconda parte - Ottavo raccontoNono racconto - Decimo racconto - Undicesimo racconto - Dodicesimo racconto - Tredicesimo racconto

Osvaldo uno come tanti

14. Un delitto (quasi) perfetto

     Il 6 maggio alle ore 11, presso la Procura della Repubblica, la dottoressa Altea Dallera, sostituto procuratore, stava facendo il punto sulle indagini del delitto del Quercione insieme al capitano dei carabinieri Tassedi.

I due personaggi non potevano essere più diversi.

     La dottoressa Dallera era una giovane magistrata con scarsa esperienza, ma molto preparata sui codici e le sottigliezze del diritto, cosciente dell’importanza della sua carica e desiderosa di dimostrare il suo valore sul campo delle indagini. Intendeva quindi chiudere rapidamente il caso presentando un colpevole anche solo sulla base di indizi, purché sufficientemente gravi, concordanti e solidi. Era consapevole che sarebbe stato meglio avere un reo confesso o almeno disporre di prove sicure, ma lei era sensibile alle critiche dei ‘media’ che sono sempre pronti a lamentare l’inefficienza e la lentezza della giustizia. Nel caso concreto di cui si stava occupando, era sufficientemente convinta che Teresa Nieddu avesse ucciso Gavino Nieddu e dunque la fase delle prime indagini si poteva concludere subito positivamente.

     Il capitano Tassedi era invece un investigatore cauto e metodico, aveva una notevole esperienza e una scrupolosità che lo portava anche ad eccedere in prudenza, inoltre era dotato di una grande sensibilità umana che lo rendeva restio ad attribuire con leggerezza la qualifica di sospettato, e non dico a un possibile innocente, ma neppure a uno che sospettato lo fosse gravemente, se c’era un rischio di sbagliare e rovinare la vita di una persona. Evitava dunque di trovare un colpevole a tutti i costi, di creare il ‘mostro’ solo per soddisfare la morbosa curiosità della gente o per venire incontro alle insistenze dei giornalisti ansiosi di sostituire i ‘sembrerebbe’ e i ‘si dice’ con una bella dichiarazione ufficiale del tipo: ‘abbiamo accertato…’, ‘le indagini sono concluse…’, ‘individuato il colpevole’; o meglio ancora: ‘abbiamo arrestato…’. Ovviamente non condivideva la fretta della dottoressa Dallera di accusare Teresa Nieddu.

     “Dunque, capitano, vogliamo concludere? Il colpevole ce l’abbiamo. No?”

     “In che senso? Abbiamo soltanto sospetti. Mi sembra poco per chiudere le indagini preliminari…”

     “E allora? Un sospettato, o meglio una sospettata, c’è: è la Nieddu Teresa. So che lei non è d’accordo e forse quella tipa le è pure simpatica. Voi maschi vi intenerite subito appena vedete una donna, specie se giovane e bella, in lacrime! Ma io? No! Tutto quel dolore che dimostra, per me è finto. E poi… io non sono l’organo giudicante, ma sono il pubblico ministero e perciò mi bastano gli indizi per formulare un’accusa.”

     Il capitano non poteva insistere nel dissentire, sia per motivi di correttezza istituzionale, sia per senso di disciplina, ma non era convinto e cercò di allungare i tempi dell’indagine, di prendere ancora tempo, tentando una via diversa dal contrasto aperto che avrebbe indisposto la dottoressa. Finse di condividere la sua opinione e propose:

   “Sono d’accordo, ma vorrei disporre un nuovo controllo al Quercione sul luogo del delitto, e, se lei autorizza, fare pure una perquisizione in casa della sospettata. Questa operazione non l’abbiamo ancora fatta e mi sembra invece molto opportuna, anzi necessaria per evitare critiche di superficialità.”

     “Va bene, le farò il decreto per la perquisizione. Ma intanto riassumiamo i fatti che conosciamo, anzi riassuma lei che si è occupato materialmente delle indagini.”

     “Come vuole. Dunque: il primo maggio alle ore 3 e 17 minuti la Nieddu Teresa ha telefonato ai carabinieri dicendo di trovarsi nell’abitazione di Nieddu Gavino, il quale era giacente sul pavimento, morto, presumibilmente assassinato. I carabinieri sono arrivati sul posto e…”

     “Si va bene, ma questo è assodato. Sappiamo che è stato accoltellato, che è morto dissanguato, eccetera. Mi dica delle indagini per identificare il colpevole.”

     “Indagini? Tante, ma, come lei sa, risultati pochi. Non è risultato che la vittima avesse nemici né che temesse qualche cosa o qualcuno. Era benvoluto da tutti…”

     “Non è detto: mai fidarsi delle acque chete… e poi viveva solo. Le sembra normale?... ha pensato a ‘chercher les femmes’ oppure al ‘vizietto’?…”

     Il capitano sorrise e pensò che succedeva sempre così, che uno non può vivere da solo senza che subito si pensi male, perché si ritiene che chi vive da solo debba essere un mandrillo sciupafemmine, se no è un gay vizioso. Era successo anche a lui, che era divorziato, non risposato e non aveva neppure una convivente; infatti talvolta aveva dovuto subire spiacevoli allusioni, anche da parte di amici e di persone che pure erano istruite e si vantavano di essere senza pregiudizi. E i preti? Se non hanno una perpetua devota (e disponibile?), rischiano di essere bollati come pedofili.

     “No, non sono risultati comportamenti ‘riprovevoli’, né in un senso né nell’altro….” aveva risposto seccamente, e aveva rimarcato quel ‘riprovevoli’ alzando il tono della voce.
     “Peccato! Sarebbe stato un bel movente perché dietro un omicidio di cui non si scopre subito il colpevole o il movente, c’è quasi sempre il sesso, quello esagerato o quello anormale... Ma cambiamo argomento. Purtroppo non abbiamo neppure un minimo di testimonianze. Lei ritiene credibile che nessuno abbia sentito niente? Omertà? Possibile che i cani non abbiano dato un allarme se un estraneo si è introdotto all’interno di quel complesso di abitazioni?”

     “Intanto non sappiamo se sia stato un estraneo o uno del posto. Però lei sospetta la Nieddu Teresa, che è del posto. Comunque sono stati interrogati tutti gli abitanti del Quercione che hanno dichiarato di non aver sentito né visto niente di anormale. Dormivano tutti e avevano qualche familiare per testimone a conferma, tutti eccetto la Nieddu Teresa che vive sola e che peraltro è stata trovata proprio sul luogo del delitto.

     Vede, dottoressa? Quanto alla credibilità, non so se siano tutti credibili, ma non ho elementi per dubitare. Io credo a tutti e a nessuno: a chiunque se non c’è un motivo contrario, e a nessuno se non c’è una prova a conferma. Comunque sono stati interrogati quelli del posto e tutti hanno detto che i cani hanno abbaiato, ma lo fanno sempre di notte. Basta un nulla e abbaiano. Basta che si senta un rumore anche lontano o il latrato di un cane dei confinanti… La gente che abita lì ci ha fatto l’abitudine a queste cagnare notturne e nemmeno si sveglia. È come per le sirene d’allarme in città: partono gli ululati e nessuno se ne preoccupa minimamente. Magari in estate, con le finestre aperte, dato che i disturbi si sentono di più, qualcuno si agita; però in questo periodo, con il tempo brutto che sembra inverno…”

     “Va bene, però non divaghiamo. Dunque l’unica a non avere un alibi è Teresa Nieddu.”

     “Vero. Ma lei, solo per questo la ritiene colpevole? Tutt’al più può essere sospettata, però è anche l’unica che ha dato l’allarme, che ha collaborato con noi. Non pensa che sarebbe stata sciocca a farlo essendo colpevole?”

     ”Tutt’altro che sciocca, anzi direi: furba. Potrebbe essere il delitto perfetto o quasi. Però non c’è solo la mancanza dell’alibi…”

     La dottoressa Dallera fece un sorrisetto volpino prima di far conoscere al capitano la prova decisiva che conosceva solo lei. In quel momento godeva a mettere in difficoltà un collaboratore troppo prudente e troppo indipendente, talvolta indisponente, come Tassedi. Fino a quel momento si era comportata come il gatto che gioca con il topo, ma ora il topo doveva essere catturato.

     “… lo sa, capitano, che cosa è risultato dall’esame del DNA del materiale che i suoi colleghi del RIS hanno trovato sotto un’unghia della vittima?”

     “No, non lo so. Non ho ancora avuto il rapporto.”

     “Ecco, mi hanno anticipato per telefono che il DNA è compatibile con quello della sospettata. Direi che la vittima deve aver graffiato chi lo ha assalito. A proposito la Nieddu presenta qualche graffio?”

     “Non credo. L’ho vista e le ho parlato, ma non me ne sono accorto. Farò controllare con discrezione in occasione della perquisizione. Ma lei, se vuole, ha il potere di chiedere un’ispezione corporale.”

     Il capitano era rimasto spiazzato e gli rodeva che la dottoressa avesse avuto quella notizia prima di lui, ma non aveva nulla da opporre, poteva soltanto tergiversare.

                                                                             *     *     *

     Il giorno dopo due carabinieri, il maresciallo Lupoli e l’appuntato Dilello in forza alla sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica, si recavano, a bordo dell’auto privata del maresciallo, al Quercione per eseguire il sopralluogo ordinato a loro dal capitano Tassedi. Il maresciallo era l’uomo di fiducia del capitano con il quale condivideva l’atteggiamento prudente e una certa antipatia per la dottoressa Dallera che considerava un’arrivista frettolosa sempre desiderosa di mettersi in mostra.

     Per prima cosa i due carabinieri effettuarono la perquisizione dell’abitazione di Teresa Nieddu.

     Si trattava di un trilocale disposto su due livelli: al piano terra il laboratorio veterinario, al primo piano una stanza multiuso (cucina e soggiorno) e una camera da letto con bagno. Effettuarono un controllo sommario senza insistere e senza fare più disordine dello stretto necessario. Il maresciallo non aveva un orientamento su cosa cercare. Il capitano gli aveva detto: “Fai tu. Chissà che non esca qualcosa? Magari a discarico della Nieddu, magari!”, quindi agiva controvoglia anche perché gli ripugnava quell’operazione che sapeva essere spiacevole per chi la subiva sentendola come una violazione personale. Comunque non trascurò di osservare se la donna avesse qualche graffio visibile: non lo aveva.

     Teresa lasciò fare senza protestare, ma non poté trattenersi dal commentare: “E così chi fa il suo dovere viene trattato come un delinquente!”, ma era restata tranquilla perché aveva la coscienza a posto e perché non sapeva ancora qual era l’intenzione del magistrato.

     Finita la perquisizione i due si recarono poi nell’abitazione della vittima. Qui si notavano le conseguenze dell’omicidio e del controllo degli uomini del RIS: tappeto macchiato di sangue, tutto rovistato accuratamente, una piccola cassaforte aperta e vuotata, sportelli e cassetti rimasti semiaperti.

     Il maresciallo aveva capito perfettamente che il capitano aveva chiesto e ottenuto di effettuare quelle operazioni di controllo per prendere tempo ed evitare che la dottoressa desse subito l’annuncio della conclusione delle indagini preliminari. Quindi si muoveva poco convinto, annoiato e non certo zelante.

     Mentre l’appuntato guardava qua e là controllando a caso soprammobili e oggetti, il maresciallo si sedette comodamente in una poltrona, abbassò lo schienale reclinabile (era quella di Gavino), si mise comodo e guardò il soffitto come per ricevere un’ispirazione per cercare qualche cosa che poteva essere sfuggito agli specialisti del RIS.

     Guardò con interesse, lui che a tempo libero si dilettava di antichità, il bel lampadario di ferro battuto che pendeva in mezzo alla stanza e notò che in basso, proprio al centro del lampadario, c’era un elemento che risultava anomalo per la sua sensibilità di antiquario dilettante, ma piuttosto esperto. Rifletté che in quel punto, nei lampadari in ferro, di solito non c’è niente, oppure c’è una decorazione a forma di spuntone, di ricciolo, di pigna, oppure un’ogiva. In questo esemplare c’era invece un piccolo cilindro nero. Si alzò dalla poltrona per osservare meglio, ma il soffitto era molto alto, secondo l’uso di una volta, e quella protuberanza, anche a causa del colore nero e della scarsa illuminazione, risultava indistinta. Allora spostò la scrivania sotto il lampadario, salì sulla scrivania e guardò attentamente illuminando il dettaglio con la luce del telefonino. Così illuminato il cilindretto rivelò un piccolo foro in basso e, all’interno del foro, un obiettivo così ben mimetizzato che stando a terra non si notava. Si grattò la testa ed esclamò:

     “Cazzo! Qui c’è una microcamera! Certamente è un impianto di video sorveglianza. Dilello, vieni un po’ qua? Guarda un po’ come cazzo è mimetizzato?”

     “Marescià, che dite parolacce?” obiettò l’appuntato, che era anziano e ben educato all’antica.

     “Siì, quando ci vogliono. Siì che le dico! E ora ci vogliono proprio.”

     Dopo aver telefonato al capitano e avergli riferito la scoperta, lasciò l’appuntato di guardia in attesa che arrivassero i tecnici del RIS e ritornò al suo ufficio in città.

     Sulla strada del ritorno, mentre guidava con la sua solita prudenza, accese l’autoradio e avviò la ricerca automatica per trovare un po’ di buona musica. L’apparecchio si fermò su un’emittente regionale che stava trasmettendo un notiziario. Stava per cambiare frequenza quando la sua attenzione venne attirata dalle parole dell’annunciatore:

     “… a proposito del delitto del Quercione, la dottoressa Altea Dallera, magistrato che coordina le indagini, ha appena tenuto una conferenza stampa nella quale ha comunicato che la prima fase delle indagini si è conclusa. È stato accertato che l’omicida è una nipote della vittima, certa Nieddu Teresa, la stessa persona che aveva per prima informato i carabinieri del ritrovamento del cadavere. Nel riferire la notizia ci complimentiamo con gli inquirenti, in primis con la dottoressa Dallera, per la rapidità con la quale si è pervenuti a risolvere un difficile caso che per l’assenza di indizi e tracce sembrava un delitto perfetto. A volte la giustizia trionfa…”

     Il giornalista passò ad altre notizie e il maresciallo spense la radio per riflettere. Gli venne subito un pensiero:

     “Chissà se si riuscirà a trovare la registrazione del delitto? Ci potrebbe essere la soluzione del caso. Certo che se si vede La Nieddu accoltellare... Ma se invece si vede un’altra persona?”

     In quel momento incrociò un’auto dei carabinieri. Riconobbe due colleghi e il capitano e intuì che andavano ad arrestare Teresa Nieddu. Pensò: “Non si poteva aspettare l’esame della videoregistrazione?”

     “Che fretta, ‘sta dottoressa stronza!” disse ad alta voce. Tanto nessuno lo poteva sentire, nemmeno l’appuntato che lo riprendeva sempre, ma bonariamente, quando gli scappava una parolaccia.

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