Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto - Quinto racconto - Sesto racconto e fine della Prima parte - Settimo racconto, primo della Seconda parte - Ottavo raccontoNono racconto - Decimo racconto - Undicesimo racconto - Dodicesimo racconto

Osvaldo uno come tanti

 13. Primo maggio

     Era il primo maggio 2016. Chi, la mattina di quel giorno, si fosse trovato sulla strada che porta alla tenuta del Quercione, andando proprio verso questa località, avrebbe potuto notare diverse automobili venire in senso contrario e avrebbe probabilmente pensato che si trattava di abitanti del posto che andavano in città per le tradizionali manifestazioni della Festa del Lavoro.

Ma se costui avesse avuto un discreto spirito di osservazione avrebbe forse notato che le persone all’interno di quelle auto non avevano affatto un’aria festosa, anzi piuttosto scontenta, e avrebbe potuto dedurre che il motivo del malumore era il tempo brutto. Infatti venivano giù dal cielo grigio sferzate di pioggia e c’era minaccia di temporale, quindi non sarebbe stato affatto divertente partecipare a cerimonie all’aperto e a cortei, pure stando protetti da ombrelli e giacche a vento.

     Quella mattina Osvaldo e Sandrone viaggiavano sul pick-up proprio per quella strada, e non gli sfuggì lo strano atteggiamento dispiaciuto delle persone che incrociavano, ma non vi dettero importanza perché del maltempo a loro importava poco: il salone del Quercione era confortevole e allegro in ogni caso, e non c’era da temere avversità meteo. Come da invito di Gavino Nieddu andavano dunque ostentando un’aria lieta e pregustando un buon pasto che avrebbe interrotto la loro dieta a base di spaghetti sugo pronto e scatolame: il tipico menù degli uomini che vivono senza donne in casa.

     Mi si permetta un’osservazione. A dirla tutta la verità, oggi nemmeno le donne sono più casa e fornelli come una volta. Giovanni, un mio amico piuttosto misogino, prevede che presto ci sarà una rivoluzione sociale: uomini ai fornelli e a far la spesa, donne in ufficio e in fabbrica. Mi dice: “Guarda in TV: le trasmissioni di cucina sono piene di maschi, mentre gli sceneggiati mostrano sempre più spesso manager, poliziotti, magistrati, medici, scienziati, che sono donne.”

     Ma lui è anziano, vive solo, si sente autosufficiente e conclude: “Così non va bene. La famiglia naturale non c’è più. Saranno cavoli loro!”

     Intende dire che ci saranno problemi per le nuove generazioni, non per noi, dato che lui e io siamo nella così detta terza età e di questa rivoluzione vedremo solo le prime avvisaglie.

     Dunque, dicevo dell’aspetto lieto dei due. Aspetto che virò rapidamente in stupito prima e preoccupato poi, quando, arrivati in prossimità del piazzale del Quercione, si trovarono la strada sbarrata da un’auto dei carabinieri.

     Un militare, in tuta mimetica e mitraglietta imbracciata, li informò laconicamente che non potevano proseguire perché erano in corso accertamenti.

     “Che accertamenti? Che è successo?” chiese Osvaldo tirando fuori la testa dal finestrino semiaperto e allungando il collo come una tartaruga.

     “Ho detto che sono in corso accertamenti e che non si può passare. Di più non so. E se dico ‘non so’, vuol dire che non so altro o non posso dire altro. Chiaro? ”

   A questa logica, da Perpetua manzoniana, Osvaldo non seppe che cosa replicare, però gli fu chiaro il motivo per cui la gente incrociata poco prima aveva un’aria scontenta. Sandrone fece retromarcia, cambiò direzione e tornò indietro, ma dopo la prima curva, quando furono fuori dalla vista dei carabinieri, svoltò per un carrareccia e, facendo un ampio giro, ritornò verso il Quercione, ma da un’altra direzione.

     “Dove andiamo?” chiese Osvaldo.

     “Tornamo al Quercione, però ci arrivo da dietro. Là non ci dovrebbe esse nessun controllo perché questa non è una strada ma un sentiero per le bestie e i trattori. Questo ‘picappe’ è come un trattore e ce potemo annà facile facile. Io so’ preoccupato. Che cacchio sarà successo?”

     “Pure io sono molto preoccupato. Di sicuro è successa qualche cosa grave. Non può essere un controllo ordinario. Assurdo!… E poi proprio il primo maggio. Una rapina? Un delinquente pericoloso che s’è rifugiato là? E poi tutto quel mistero.”

     Arrivarono vicino al Quercione, fermarono l’auto a cento metri infilandola in un boschetto di acacie, proseguirono a piedi ed entrarono passando per l’arco che metteva in comunicazione la campagna con il piazzale.

     Proprio in mezzo, fra il grande leccio e le abitazioni, c’erano due auto dei carabinieri, un’ambulanza e un furgone funebre nel quale quattro persone stavano caricando un contenitore metallico di quelli che si usano per il trasporto all’obitorio del cadavere di una vittima di incidente o di delitto.

     Un po’ di gente del Quercione, incurante della pioggia, assisteva all’operazione come se fosse uno spettacolo emozionante. Emozionante nel senso peggiore del termine. Era eccitata per quella dose di sadismo e masochismo che c’è un po’ in tutti e che, in occasione di morti violente e disastri, provoca una curiosità malsana che si esprime in sguardi di orrore, in esclamazioni tragiche, ma tradisce il malcelato piacere morboso di poter pensare: “Meno male che non è toccato a me!”

     Osvaldo notò che i carabinieri avevano posto i sigilli alla porta dell’abitazione di Gavino e stendevano un nastro di plastica per delimitare la zona antistante. Ebbe un brivido e il cuore prese a battergli con violenza. Non riusciva ancora a capire che cosa fosse successo e cercava di levarsi dalla mente l’ipotesi che il morto potesse essere proprio Gavino. La verità gliela rivelò singhiozzando Teresa.

     Teresa, che stava appunto tra quelli che assistevano inorriditi all’operazione di traslazione del cadavere, si era accorta dell’arrivo di Osvaldo e Sandrone. Andò incontro ai due e abbracciò Osvaldo, si strinse contro di lui come fa un bambino terrorizzato che abbraccia un genitore rifugiandosi nell’unica persona di cui si fida e dalla quale può avere un po’ di conforto. Osvaldo ricambiò la stretta e le accarezzò delicatamente le spalle. Non parlò finché non sentì che Teresa si stava calmando. Non domandò per non aggravare il dramma che sentiva in lei, aspettò che fosse lei a parlare.

     Finalmente Teresa allentò la stretta, guardò Osvaldo con gli occhi annebbiati dalle lacrime, singhiozzando spiegò:

     “Povero nonno… è morto… è stato assassinato…”

     La terribile verità, che Osvaldo aveva ipotizzato ma cercato di esorcizzare, gli si presentò violenta e irreversibile. Un nuovo brivido gli percorse il corpo. Aspettò qualche attimo per riacquistare il controllo di sé, poi si allontanò con Teresa dal gruppo degli spettatori di quella macabra operazione. Accompagnato da Sandrone, muto e avvilito, condusse lei sotto una tettoia dove c’era una panchina, la fece sedere, le prese la mano destra e gliela strinse per comunicarle la sua partecipazione al dramma e infonderle un po’ di coraggio.

     Guardava Teresa. Com’era diversa dalla ragazza vivace, ridente, irriverente, che aveva incontrato più volte! Ricordò le parole che gli aveva detto Gavino (povero Gavino!):

     “Di solito è come l’hai conosciuta, allegra ed espansiva, ma di tanto in tanto ha momenti di tristezza.”

     Tristezza? No, molto peggio! Ora era in una disperazione che la rendeva vulnerabile come una bambina.

   Allora Teresa cominciò a raccontare. Aveva bisogno di confidarsi con una persona amica, di avere uno sfogo anche verbale che la liberasse dal macigno che sentiva dentro. Aveva già detto tutto quello che sapeva ai carabinieri, ma era stata una dichiarazione raccolta a verbale nel freddo linguaggio burocratico che bada ai fatti ma ignora i sentimenti. Teresa raccontò con un tono accorato e brevi pause che esprimevano l’orrore e il dolore.

     “Questa notte, verso le tre… sono stata svegliata dal telefonino che suonava… Sul display appariva il nome del chiamante: “Gavino”… Ho risposto: “Pronto? Dimmi nonno. Che succede?” Ho sentito solo dei rantoli… Mi sono spaventata, sono corsa nel suo appartamento con la sensazione di trovare la morte... La porta era aperta e Gavino era a terra in una pozza di sangue. Gli ho controllato subito il polso e il respiro… niente, era già morto. Allora ho chiamato il 112, i carabinieri.”

     “Ma come è stato? Chi è stato?”

     “Non so, non so nient’altro.”

     Si avvicinò un maresciallo dei carabinieri, guardò la donna, la riconobbe perché era quella che aveva chiamato e si era presentata per prima, poi rivolto ai due uomini chiese:

     “Voi due chi siete? Non mi pare che siate stati identificati e interrogati ...”

     “Mi chiamo Novotti Osvaldo.”

     “Io sono Fortone Alessandro, siamo amici di famiglia. Siamo arrivati adesso…”  

     “ Ma come… siete arrivati? Adesso? L’accesso è chiuso. Chi vi ha fatto passare?”

     “Siamo venuti di là…” precisò Sandrone indicando il passaggio dell’arco.

     “Va bene. Cioè non va bene per niente. Nessun estraneo doveva entrare. C’è già troppa gente qui. Dobbiamo interrogare tutti, e ora anche voi… ma non sarete mica giornalisti?”

     “No, maresciallo, loro sono cari amici. Sono quasi di famiglia…” confermò Teresa.

     Intanto il cielo, già plumbeo per la pioggia intermittente, si andava scurendo di più e si sentivano in avvicinamento i tuoni che preannunciavano un temporale.

     Venne affrettata la conclusione delle operazioni in corso e poi il furgone funebre partì preceduto da un’auto dei carabinieri e seguito dalla vettura del magistrato. L’ambulanza se ne era già andata via prima. I carabinieri rimasti fecero entrare nel salone le persone ancora da interrogare, tra loro Osvaldo e Sandrone.

     All’interno, gli ornamenti preparati il giorno prima per la festa davano uno spiacevole senso di grottesco all’ambiente, e le luci, accese per il buio incipiente, ma in quantità minima, rendevano lugubre l’atmosfera.

     All’esterno, nel piazzale ormai vuoto, tutto appariva triste e grigiastro, anche il bianco dei muri sembrava scurire con il nero dei nuvoloni che appesantivano il cielo. Solo il nastro a fasce bianche e rosse con la scritta ‘CARABINIERI’ spiccava per un po’ di colore, si agitava e tremava investito dalle raffiche del vento, indicava brutalmente il luogo del delitto.

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