Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto - Quinto racconto - Sesto racconto e fine della Prima parte - Settimo racconto, primo della Seconda parte - Ottavo raccontoNono racconto

Osvaldo, uno come tanti

10. I guai di Sandrone, per non raccontare i guai di Osvaldo, anzi li racconto.

     Martedì 5 aprile.

     Osvaldo e Sandrone stavano sistemando il terreno attorno al casale. Estirpavano le erbacce e gli arbusti cresciuti spontaneamente ed eliminavano i detriti accumulati nel tempo che s’erano inglobati nella terra argillosa tanto da formare uno strato irregolare, che era roccia nei periodi siccitosi e fango ciottoloso dopo ogni pioggia persistente. Osvaldo intendeva pulire e spianare la strada di accesso e il cortile del casale per poi sistemare il tutto con uno strato di ghiaia e guarnire i bordi con cespugli di oleandro.

     Sandrone era venuto verso le undici e aveva trovato l’amico che, piccone e pala, sudava in questa impresa di sistemazione. Aveva scosso il capo dubitando dell’utilità di quel lavoro perché lo riteneva superfluo dato che lui, con tutta la sua famiglia, aveva vissuto lì per tanti anni e mai si era preoccupato di questa mania tipica dei cittadini: volere che tutto sia pulito e aggraziato come un giardino pubblico anche in un cortile di campagna. Era convinto che per il vero contadino l’esterno della casa debba essere un’aia rustica a disposizione delle galline, che ci trovano il loro cibo preferito, erbe e animaletti, e così non hanno bisogno di alcuna alimentazione e fanno uova più grosse e saporite. Il contadino è felice perché allevare le galline non gli costa niente, sono felici le galline che ruspano libere, e sono felici anche gli animalisti vegani che odiano gabbie e recinti, purché non sappiano dell’uso commestibile delle uova.

     Dunque Sandrone non approvava il progetto dell’amico ma, con l’innata cortesia della gente di campagna sempre pronta a dare una mano, si era messo ad aiutare. Però, contrariamente al suo solito, era arrivato ad un’ora piuttosto tarda e senza preavvisare, inoltre era stranamente taciturno. Osvaldo aveva provato a fare conversazione, ma aveva ricevuto in risposta solo dei monosillabi “sì - no ”, o tutt’al più un ‘forse - come vuoi tu - come te pare”.

    Verso l’una del pomeriggio decisero di fare una pausa per un po’ di riposo e uno spuntino. Come ho detto, Osvaldo aveva già notato l’insolito comportamento di Sandrone, normalmente espansivo ed estroverso, e tanto più si stupì notando che il suo amico, che si era sempre dimostrato un divoratore insaziabile, quel giorno mangiava poco e controvoglia. D’impulso gli chiese:

     “Sandro, c’è qualcosa che non va? Ti vedo strano. Non vorrei che sia colpa mia. Ti ho fatto uno sgarbo? Dimmelo. Parla chiaro.”

   “No, Osvà. Tu nun c’entri. So’ problemi miei, famigliari… Vabbè, nun te volevo di’ gnente. Ma tu sei un amico e se nun me confido co’ te, allora…”

     “Allora?”

     “… è che è da parecchio tempo che nun vado più d’accordo co’ mi moje!”

     “Eeh! Saranno i soliti bisticci che ci sono in tutte le coppie… qualche litigata, un po’ di broncio, poi un bacetto, e tutto passa.”

     “E bravo! Proprio tu dici così dopo quello che t’è successo co’ Gina…

     “Che c’entra? Io e Gina mica eravamo sposati.”

     “E allora? Che tu te pensi che il matrimonio è de cemento armato? Nooo! Può darsi che era così, una volta, quando la legge e la religgione erano una cosa seria… oggi è de creta, c’è il divorzio, e ce vo’ poco a franallo il matrimonio. Lo sai come pensano le femmine? Dicono: Il sesso è mio e me lo gestisco io!”

     Sandrone ebbe un singhiozzo, strizzò gli occhi e se li strofinò per non piangere. A Osvaldo fece una strana sensazione vedere un omone, tipo Bud Spencer, singhiozzare. Ma credo che tutte le persone normalmente civili abbiano quella sensazione. Gli fece pena, ma gli sembrò anche un po’ ridicolo. Represse il sorriso e chiese:

     “Spiegati meglio… non riesco a capire.”

     “E vabbè. Mò te racconto tutto. È cominciato da quando avemo lasciato il casale, che poi l’ho messo in vendita e tu l’hai comprato… quando li fiji se sono spostati in città pe’ fa li carrozzieri, e noi, appunto io e mi moje, ci siamo trasferiti al paese, dove essa c’aveva una casa ereditata. Allora essa ha cominciato a dasse l’arie da signora: vestiti di buticche, parrucchiere, puzza sotto ‘l naso. Tu che avresti pensato? E tèni conto che a lo stesso tempo ha cominciato a… dicemo… trascuramme…”

     Sandrone smise di parlare e guardò Osvaldo con aria interrogativa, come per invitarlo a tirare la conclusione. E lui la tirò d’impulso:

     “Aveva… ha… un altro uomo?”

     “Bravo! Proprio così. Me c’è voluto un po’ de tempo pe’ capillo. Prima un dubbio, poi un sospetto, e poi je l’ho sbattuta in faccia la domanda, j’ho detto: “Dimme ‘n po’? Che c’hai ‘n antro omo?” E essa, co’ l’aria de una principessa sul pisello, me fa: “Embè? Che ce posso fa? Lo sai che al core nun se comanda?”

     Una breve pausa, una tiratina su col naso, e poi:

     “Pure tu l’hai vista a la festa de pasquetta, al Quercione, come era tutta riggida, scontrosa. Proprio la mattina avevamo liticato e arrivato al dunque: che ce se doveva separà.”

     Sandrone tacque. Aveva detto troppo, si era sfogato e ora aspettava il commento di Osvaldo sperando di trovare un conforto, ma senza contarci molto, perché pensava: “In un caso come questo, che te pò fa un amico? Te compiange, se va bene, se no magari te trova pure qualche colpa. Allora sei cornuto da la moje e rimproverato dall’amico.”

     E infatti Sandrone aveva ragionato così già di suo, trovandosi dei torti che forse un po’ c’erano, come ci sono sempre quando una coppia va in crisi. Rimuginava sul suo comportamento passato, ed era incline, come tutte le persone d’animo buono, a trovarsi in colpa, ad ammettere di aver sbagliato, a riconoscere di non aver capito né rispettato le esigenze della moglie.

     Osvaldo non sapeva che cosa dire e, per non rimanere muto, invece di commentare domandò:

     “E ora che fate? Che pensi di fare?”

     “Io? Niente. Che devo fa’? Certo che in casa con quella puttana non ce posso stare più. Oggi ho portato co’ me un po’ di cose personali. Mica vojo rientrà a casa stasera…. Veramente avrei pensato…”

     Qualche attimo di sospensione. Arrossì e cominciò leggermente a tremare per la vergogna di dover chiedere quello che sapeva essere un favore troppo grosso. Poi, pur dubitando, domandò:

     “ … posso venì a abbità qui con te? Sei solo. Te aiuto a lavorà. Te pago la pensione… Que’ era casa mia… Ma che cazzo sto a dì? Scuseme. Me poi capì?”

     Osvaldo sentì sparire ogni traccia di umorismo e capì che il mondo gli stava cadendo addosso, che il destino lo caricava di un onere imprevisto e imponderabile nelle conseguenze. Ma non ragionò, non ne ebbe né il tempo né la freddezza, e invece rispose d’impulso:

     “Ma certo. Questa era casa tua. Fa come se lo fosse ancora.”

     Abbracciò l’amico con commozione e affetto rinviando a dopo ogni considerazione razionale sul come organizzare la sua vita in un modo completamente diverso da come l’aveva progettata.

                                                                           *     *     *

     Il piano superiore del casale era composto, oltre la cucina e la camera da letto di Osvaldo, anche da due altre camere più piccole, che erano state usate dai figli di Sandrone quando la famiglia Fortone abitava lì. Al momento erano vuote. Sandrone ne scelse una. Poi andò al suo paese e tornò con una brandina, un materasso, coperte e biancheria da letto e da bagno, portò tutto in quella che sarebbe divenuta la sua stanza e si sistemò spartanamente per la notte. L’unico oggetto, che si era portato oltre lo stretto necessario, era una statuina di plastica della Madonna di Lourdes, piena di acqua benedetta, che aveva acquistato personalmente in occasione di un pellegrinaggio alla Grotta di Massabielle, insieme con la moglie quando erano ancora innamorati. Nella sua fede, un po’ ingenua ma essenziale, gli era sembrato che sarebbe stata una profanazione lasciarla nella vecchia camera ad assistere alle turpi scene che sicuramente ci sarebbero state subito dopo la sua partenza.

     Osvaldo durante il pomeriggio fu distratto dal lavoro e la sera, a cena, dalle chiacchiere di Sandrone che sembrava tornato l’allegro amicone di sempre; ma sentiva, come un sottofondo nella coscienza, la preoccupazione dei tanti domani, di quella serie di giorni che gli sembrava interminabile, caratterizzati dalla problematica convivenza con un estraneo, perché tale era il suo nuovo inquilino, anche se amico. Con un amico si scherza, si fa bisboccia, magari si litiga pure e poi si fa pace, ma non si convive. Di solito.

     Le preoccupazioni, represse fino all’ora di andare a dormire, ma non domate, gli si presentarono come tormento assillante nella solitudine della camera da letto.

     “Com’è? – si chiedeva – Come sarà coabitare con un altro? Resisterò? Sono stato troppo precipitoso nell’accettare? Perché non ho almeno precisato un termine? Un mese o due… di più temo che non ce la farò. Ora non è come, per esempio, il servizio militare che si è in tanti e si sa che è una convivenza casuale e provvisoria… E che penserà la gente? La gente pensa subito male e fa presto a fare due più due, cioè a concludere che non siamo semplici amici ma ‘compagni’ cioè… come si può dire?... ‘omoamanti’.”

     Nel corso di questo racconto ho già fatto presente che Osvaldo era una persona razionale ma impulsiva, cioè uno che ragionava molto e anche bene, ma spesso tardi, dopo aver preso una decisione con il cuore invece che con il cervello. Ammesso che il cuore, quell’organo che è solo una pompa, c’entri in qualche modo nelle scelte e nelle decisioni, il che io non credo affatto. E nemmeno lo credeva Osvaldo, che ogni tanto decideva d’impulso, poi rifletteva e si creava dubbi, recriminazioni e talvolta pentimenti.

     Si addormentò tardi, passata la mezzanotte, e sognò, o meglio ebbe un incubo.

     Raccontare un sogno è difficile perché non ci sono fatti, ma una serie di sensazioni personali, irrazionali, senza alcuna oggettività. E ancora più difficile è descrivere un incubo. Approfitto perciò del solito ‘Diario’ per raccontare il sogno/incubo e le considerazioni a caldo, subito dopo il risveglio...

… ma leggiamo insieme nel

 

Diario di Osvaldo

6 aprile 2016, san Prudenzio, vescovo di Troyes, ore 22.

     La notte scorsa ho avuto un incubo.

     ”Era scoppiata la guerra. Non sapevo come e con chi, ma sentivo che i combattimenti si avvicinavano. Scoppi di bombe si alternavano a lunghe raffiche di mitragliatrice. Sentivo il rumore dei carri armati.

     Sapevo di stare a letto e volevo scappare rifugiandomi almeno in cantina, ma ero paralizzato, cioè non proprio paralizzato ma legato, e non riuscivo a muovermi normalmente. Mi divincolavo ma non potevo liberarmi. Ebbi la sensazione che là fuori i carri armati stessero per investire la casa e abbatterla. Ecco! Immaginai che questa sarebbe stata la mia fine. Ma la casa non crollava perché i carri armati, quando la raggiungevano, si alzavano dritti contro la parete, non li vedevo ma lo sapevo, cioè lo intuivo come avviene in sogno quando la ragione latita, e si arrampicavano fin sul tetto dove si muovevano rotolando i loro cingoli con un rumore terribile...”

     Quel rumore mi ha svegliato. Mi sono districato faticosamente dal lenzuolo che mi avviluppava come una mummia perché evidentemente nel sonno agitato mi ero mosso rigirandomi disordinatamente, e nel lenzuolo mi ci ero avvolto, quasi legato. Ho tirato un respiro di sollievo appena ho capito che era stato solo un incubo.

     Però mi sembrava strano che, pur essendomi svegliato, continuassi a vedere saltuari bagliori di luce e a sentire ancora le esplosioni, e che persistesse pure quel gran rumore sul tetto.

     Ragionando, con quel po’ di calma che son riuscito a trovare, ho capito che era in corso un grosso temporale, che i lampi e i tuoni sembravano cannonate, che il crepitio delle mitragliatrici all’esterno era in realtà un rumore di grandine, chicchi di grandine così fitti e grossi che sul tetto parevano addirittura un rotolare di cingoli ferrati.

     A una prima sensazione di sollievo per lo scampato pericolo della guerra, è subentrata una nuova angoscia per i danni che quella grandinata forse, anzi certamente, stava facendo: grano abbattuto, alberi da frutta spogliati delle nuove fronde, viti danneggiate…

     Ho avuto in un lampo la consapevolezza del disastro non solo materiale, ma anche economico, e mi sono reso conto di essere rovinato. Ho ancora qualche riserva nel conto in banca che deve servire per i primi anni, ma così dovrò consumare tutto entro quest’anno perché non ci sarà alcun raccolto. E l’anno prossimo?

     Avrei voluto piangere, tornare bambino e chiedere aiuto alla mamma… però un adulto deve cavarsela da solo. Ma come?

   Mi è tornato di nuovo il dubbio di avere sbagliato tutto. È un dubbio che mi viene spesso, ma che riesco sempre a rimuovere pensando ad altro. Ma non questa volta, la notte scorsa mentre continuava la bufera, così che il dubbio si è trasformato in certezza. E ho desiderato di morire…

     Mentre stavo a letto sconvolto da tanta sfortuna, ho sentito bussare alla porta della camera. Era Sandrone che era stato svegliato anche lui dai tuoni, forse si era spaventato, forse veniva a chiedermi conforto. Ho pensato: “Ci manca pure che a me tocchi di confortarlo!”

   Invece mi ha detto:

   “Sei svejo? Oooh! Nun te preoccupà per i danni. Te paga tutto l’assicurazione e, si sei furbo, ce guadagni pure. C’avevo l’assicurazione e l’ho volturata a te subito dopo il contratto. Nun me ricordavo se te l’avevo detto, e così sò venuto a dirtelo subbito perché ho pensato che potevi esse preoccupato…”

     Ho tirato un gran respiro di sollievo e mi sono messo a ridere in modo un po’ isterico, come capita a chi viene a sapere di aver vinto il primo premio della lotteria di capodanno proprio mentre sta per fallire per debiti.

     Ma ho riso anche, dopo che mi sono liberato dall’angoscia, perché Sandro era veramente buffo: otre alla sua dimensione corporale extra-size sia in altezza sia in larghezza, che gli ha fatto meritare il soprannome di Sandrone, oltre all’esibizione di ruvidi baffoni spioventi, era scalzo, indossava grossi pantaloni di un pigiama a strisce bianche e celesti, tirati sopra la maglia e su fin quasi alle ascelle, e aveva in testa uno zucchetto stile anni venti. Ho esagerato con la fantasia questi particolari un po’ ridicoli e l’ho immaginato come un Obelix. Gli ho detto:

     “Sandro, grazie, sei il mio salvatore. Se io fossi Asterix tu saresti il mio Obelix! Anzi San Dro Belix.”

     “Chi sarebbe io?”

     “SAN DRO - BE - LIX.”

     “E chi ca.. è ‘sto santo? Mai sentito. Ah, Osvà! Ma che li troni t’hanno rintronato ‘l cervello?”

Agostino G. Pasquali