Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto - Quinto racconto - Sesto racconto e fine della Prima parte - Settimo racconto, primo della Seconda parte - Ottavo racconto -

Osvaldo, uno come tanti

9. Grande festa al Quercione: i giochi

 

     La festa del lunedì di Pasqua non era solo un pranzo, e infatti nel pomeriggio erano previsti per i volonterosi, secondo i gusti e le capacità di ognuno, giochi e passatempi. Ne accennerò brevemente, ma mi soffermerò poi su una gara alla quale partecipò anche Osvaldo.

     Considerate le condizioni meteo, purtroppo non favorevoli per stare all’aperto, i giochi si svolsero all’interno nello stesso salone del pranzo che fu risistemato rapidamente secondo una tecnica organizzativa già messa a punto negli anni precedenti, perché non è infrequente che per Pasqua ci sia freddo e anche maltempo.

     Chi amava stare seduto comodamente, e continuare a gustarsi qualche altro bicchierino di ‘filu ‘e ferru’, poteva dedicarsi ai giochi da tavolo iscrivendosi a tornei di briscola e burraco oppure di scacchi. Per i giovani amanti del movimento c’erano a disposizione due tavoli da ping-pong.

     La signora Stefania, nata Dessì, che faceva la maestra elementare in città ma aveva sposato un Nieddu e perciò risiedeva al Quercione, aveva organizzato giochi di gruppo per i più piccoli. Aveva preparato, usando cartone e gommapiuma, dei coloratissimi accessori di abbigliamento e aveva trasformato i bambini in cowboy, indiani, astronauti e supereroi, poi li aveva condotti in un magazzino che era stato liberato appositamente del suo contenuto ordinario, e là i piccoli, immedesimati nei loro fantastici ruoli, scorrazzarono felici urlando, saltando e dando sfogo alla vitalità che avevano tenuto repressa durante il pranzo.

     Per chi non amava giocare e preferiva godersi un po’ di riposo c’erano sedie con braccioli, quasi delle poltroncine, sistemate davanti al camino, dove era lecito anche appisolarsi, e i più anziani ne approfittarono volentieri.

 

     L’evento tradizionalmente più importante del pomeriggio era la salita sull’albero della cuccagna sistemato nel grande cortile. Tempo bello o brutto si doveva fare all’aperto.

     Per chi non conosce questa antica gara, neppure per sentito dire, spiego subito che era, ed è tutt’ora dove viene ancora praticata, un’arrampicata su un grosso palo, praticamente un tronco d’albero perfettamente diritto, scortecciato e liscio, anzi pure scivoloso perché ingrassato con strutto; veniva piantato in terra e tenuto perfettamente verticale da tiranti disposti a mo’ di piramide. In cima venivano appesi i premi disposti a corona, da conquistare arrampicandosi a mani nude e talvolta anche a piedi nudi. Nel caso che sto raccontando, dato il freddo, erano ammesse le calze, ma non le scarpe.

     Fino agli anni cinquanta del secolo scorso, quando la penuria di generi alimentari era diffusa, i premi erano esclusivamente: salami, prosciutti, formaggi, bottiglie d’olio e fiaschi di vino. Si può facilmente immaginare quanto fossero ambiti. Oggi, dove si pratica ancora questa gara, ci si aggiunge volentieri un orologio, uno smartphone o un buono regalo per la spesa in un market. Al Quercione, un ambiente che come ho detto era molto tradizionalista, queste novità erano sdegnosamente rifiutate, ma proprio in cima, oltre la corona degli alimentari, c’era sempre un trofeo dorato, che poteva essere una targa o un piatto con incisa l’indicazione delle circostanze: luogo, occasione e data, da completare poi con il nome del vincitore.

     Questa antica prova atletica che implica forza e abilità nella massima semplicità di esecuzione, senza alcun impiego di tecnologie e di preparazioni particolari, è oggi una disciplina sportiva quasi scomparsa; non ha regolamenti né associazioni perché non interessa al mondo dell’economia che non può sfruttarla per vendere prodotti specifici o per farsi pubblicità, quindi non ha sponsor e la sua pratica è sempre più rara. Ma al Quercione c’era stata sempre e si continuava a praticarla per il piacere dei giovani maschi che potevano dimostrare la loro bravura, e provocava la partecipazione emotiva di tutti gli altri che facevano il tifo per un parente, un fidanzato, un marito o un amico. Donne e uomini, piccoli e grandi, non c’era nessuno che restasse insensibile al richiamo dell’albero della cuccagna. Tutti sospendevano i loro giochi e anche quelli che se ne stavano appisolati davanti al camino rinunciavano temporaneamente alla loro pigrizia per assistere alla gara.

 

     Osvaldo si trovò iscritto tra i concorrenti senza essere stato interpellato. Glielo comunicò il giovane Bonario, che era uno dei tanti discendenti del capostipite Giovanni ed era pure concorrente, uno dei favoriti per la vittoria. Osvaldo cercò di rifiutare perché non aveva un vestito adatto; ma quello, che aveva previsto la scusa, gli porse una tuta da lavoro e gli disse:

     “Togliti giacca camicia e pantaloni, mettiti questa, è mia, è pulita di bucato. Se poi ti sporchi la biancheria perché il grasso trapassa, non ti preoccupare: ti darò il ricambio e ti farò lavare la roba sporca da mia madre.”

     Teresa era presente e guardava con un’aria birichina Osvaldo. Poteva lui insistere nel rifiuto? Aveva il suo orgoglio di maschio e accettò. Poi se ne pentì subito, perché temeva ragionevolmente di fare una figuraccia nel confronto di concorrenti magari più giovani di lui, e comunque tutti abituati al lavoro duro e già esperti per aver fatto la gara negli anni precedenti. Ma ormai c’era dentro e non poteva ritirarsi: considerò che forse avrebbe fatto una figura brutta senza successo, ma sarebbe stata certamente una peggiore figura se avesse rinunciato dimostrandosi un fifone. Del resto si sentiva fisicamente idoneo perché in passato aveva praticato sport e da un mese, cioè da quando faceva il contadino, aveva sicuramente allenato il fisico alle fatiche.

 

     Poco dopo, pressoché tutti coloro che avevano partecipato al pranzo, dal patriarca Gavino al bambino più piccolo, stavano disposti in circolo attorno all’albero, lasciando appena lo spazio a sei concorrenti. Vennero estratti a sorte i numeri per l’ordine delle salite e furono date le istruzioni e le regole perché la gara fosse combattuta ma corretta.

     A Osvaldo toccò il numero quattro e poté vedere Bonario, che fu il primo, salire faticosamente fino a quasi metà altezza e poi, stanco, lasciarsi scivolare giù; il secondo salì un po’ più del primo e il terzo un po’ più del secondo. Studiò i movimenti che vedeva fare e notò che ad ogni sollevamento con le braccia seguiva, appena la presa delle mani si allentava, una scivolata che faceva perdere almeno la metà del vantaggio acquisito ad ogni bracciata: dunque bisognava tirarsi su con le mani, allentarle e stringerle di nuovo più in alto con rapidità, riducendo al minimo il tempo della scivolata che la stretta di gambe riduceva ma non impediva del tutto. Capì pure che i primi tentativi servivano a ripulire il legno dall’eccesso di grasso il quale restava sulle tute e sulle mani. Così ammaestrato salì anche lui e senza strafare andò appena un po’ più su di dove era arrivato il terzo. Anche lui, come aveva visto fare dai concorrenti precedenti, dopo essere sceso si ripulì le mani con uno straccio fornito a quello scopo.

     Il quinto concorrente, un ragazzone atletico proveniente da una fattoria confinante con il Quercione e quindi ospite esterno come Osvaldo, si sforzò poco per non stancarsi e quindi non ci mise il giusto impegno, salì meno degli altri. Venne fischiato dagli spettatori che commentarono male quella astuzia, lecita sì, ma sportivamente criticabile. Ma quello fece sfacciatamente di peggio: dopo essersi pulite le mani dal grasso se le sporcò di terra. Si trattava di un accorgimento talvolta ammesso che certamente favoriva la presa, ma era vietato al Quercione perché, oltre che sleale, era pericoloso in quanto la terra, che poi dalle mani passava al palo restandovi incollata, poteva graffiare un concorrente in fase di scivolata e quindi procurargli poi un’infezione. Il quinto concorrente sapeva del divieto, perché era stato specificato con una delle regole, e perciò fu immediatamente squalificato.

     I cinque rimasti fecero diversi turni di tentativi arrivando ogni volta più su; però mancava ancora un buon metro per raggiungere la corona dei premi, e ora l’impresa diventava sempre più ardua perché la stanchezza si accumulava e le tute ormai impregnate di grasso non pulivano più il palo, anzi erano diventate esse stesse scivolose. I concorrenti, incoraggiati dal pubblico, moltiplicarono gli sforzi e, all’ottavo tentativo, il numero 6 riuscì a raggiungere e abbrancare il prosciutto che, con la sua mole, pendeva più in basso degli altri premi. Sciolse il legaccio a fiocco e si lasciò scivolare a terra portando il suo trofeo; venne accolto da applausi. Poi fu la volta del numero due e poi del numero tre che raggiunsero e asportarono gli altri premi e portarono giù anche la corona. Costoro, che avevano vinto i premi, si ritennero soddisfatti e rinunciarono a proseguire. Restavano quindi in gara solo il numero uno, Bonario, e il numero quattro, Osvaldo; e c’era da prendere solo l’ultimo premio: la targa dorata posta proprio in cima al palo.

     L’impresa era adesso veramente difficile perché l’altezza era tutta da conquistare e la stanchezza si faceva sentire. Il palo era ormai pulito, salvo l’ultimo metro, ma le tute che i due indossavano era unte e scivolavano facilmente. Osvaldo pensò che ormai aveva fatto la sua figura e poteva dirsi contento, inoltre gli sembrava brutto essere proprio lui, un estraneo, a ottenere il premio migliore. Fece ancora un paio di tentativi arrivando vicino alla cima, ma senza compiere l’ultimo decisivo sforzo. Lo stesso fece Bonario. Il pubblico parteggiava per il concorrente di casa e lo incoraggiava più di quanto facesse con Osvaldo. Ancora un tentativo del numero uno che arrivò veramente vicino al successo: la targa era a portata delle sue mani strettamente abbrancate al palo, ma, quando ne staccò una per afferrare il premio, cominciò inesorabilmente a scivolare giù fino a terra. Allora un pizzico di spirito agonistico stuzzicò l’orgoglio di Osvaldo che si concentrò preparandosi per un nuovo tentativo. Mentre si accingeva a salire intravide tra gli spettatori il volto di Teresa e gli parve di leggere nel suo sguardo un invito: “Dai, forza, vai su per me. E vinci!”

     Con questo duplice incentivo, cioè l’orgoglio personale e lo stimolo di Teresa, trovò nuova energia, un’energia speciale che non credeva di avere, salì svelto senza programmare tattiche e senza fare pause per riprendere fiato. Si trovò in cima e s’impossessò del trofeo.

    

     Intanto si era fatto pomeriggio inoltrato.

     Era già entrata in vigore l’ora legale e quindi c’era ancora luce, ma si sentiva il calo repentino della temperatura e l’aumento dell’umidità. Tutti rientrarono nel salone che nel frattempo era stato sgomberato addossando tavoli e sedie alle pareti.

     Ci furono le premiazioni: piccoli premi e attestati di partecipazione; e, secondo una tradizione che prevedeva un omaggio per gli ospiti esterni, venne data a ognuno di loro una riproduzione della maschera da mamuthone.

     Subito dopo ‘Su Maistru Erricu Nieddu’, così si faceva chiamare in arte un giovane che era un ottimo intrattenitore da piano bar, si mise alla tastiera elettronica e iniziò a suonare e a cantare. Il karaoke e il ballo chiusero la festa.

                                                                     *     *     *

     Qualche giorno dopo Osvaldo ripensò alla gara e gli venne il dubbio di essere stato favorito in qualche modo dagli altri concorrenti per una speciale gentilezza verso l’ospite. Insomma avevano permesso che fosse lui a vincere il trofeo. Ne parlò con Teresa e da lei venne a sapere, fra l’altro, che i premi alimentari della cuccagna, così come parte dei cibi preparati ma non consumati nel pranzo, venivano offerti tradizionalmente alla Caritas. Escluso ovviamente il trofeo finale che quindi era l’unico vero premio per un solo vincitore della salita sull’albero della cuccagna. Il resto era gioco e spettacolo. Ma Teresa non seppe o non volle togliergli il dubbio.

     Osvaldo si confermò peraltro nella sua convinzione che la comunità del Quercione fosse un esempio eccezionalmente ammirevole di società, una società gentile, onesta e altruista, e che lui era stato particolarmente fortunato nell’esservi stato accolto.  

Agostino G. Pasquali

 

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