Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto - Quinto racconto - Sesto racconto e fine della Prima parte - Settimo racconto, primo della Seconda parte

Osvaldo, uno come tanti

8. Grande festa al Quercione. Il pranzo.

     Osvaldo arrivò puntualissimo al Quercione alle ore 13. Parcheggiò la Panda e trovò subito dove era la sala da pranzo: infatti si notava molto evidente un portone al piano terra, ornato da coccarde tricolori, da grossi vasi alcuni verdi altri fioriti, e dalle bandiere italiana e sarda. Udì pure un brusio di voci provenienti dall’interno. Entrò.

 

     Il pranzo del lunedì di Pasqua era una tradizione importante per la comunità del Quercione. Tradizione iniziata negli anni trenta che si era mantenuta sempre, anno dopo anno, e non era stata mai svilita né dalle difficoltà e dalle penurie della guerra, che in un’azienda agricola si sentivano poco, né dalle recenti mode volubili, che dissacrano usi e costumi.

   Non era soltanto un pranzo, per quanto ricco e solenne, e infatti era seguito da una festa organizzata in grande, e vi partecipavano, prima al pranzo e poi alla festa, anche persone estranee alla tribù dei Nieddu: c’erano sempre parenti venuti da lontano, anche dalla Sardegna, e amici e confinanti invitati espressamente per l’occasione.

     Si teneva preferibilmente all’aperto, com’è tradizione generalizzata per il lunedì dell’Angelo, ma questa volta il cielo coperto e la bassa temperatura di appena 13°, resa più fredda da un vento fastidioso, avevano obbligato Gavino a organizzare il pranzo in un grosso locale rettangolare capace di ospitare tavolate per almeno cento persone; questo salone si trovava al piano terra dell’edificio centrale ed era destinato a magazzino durante i giorni della raccolta dei cerali, e quindi nel periodo pasquale era vuoto.

     Si trattava di un ambiente ordinario, senza alcuna pretesa di eleganza, però tutt’altro che sgradevole alla vista, anzi reso suggestivo e caratteristico dal soffitto a volta e da quattro pilastri di pietra grigia che, addossati alle due pareti lunghe intonacate bianche, vi spiccavano e salivano fino a sorreggere due archi, i quali dividevano il soffitto in tre porzioni. Nei giorni precedenti era stata rinfrescata la verniciatura e l’ambiente era stato accuratamente pulito e ornato con striscioni di bandierine e luminarie.

     Un grande e solenne camino, costruito con la stessa pietra grigia dei pilastri, era sito a metà del lato corto opposto all’ingresso; vi ardeva un grande fuoco acceso già la sera prima, che aveva riscaldato l’ambiente e gli aveva dato un fascino d’altri tempi; intanto provvedeva a terminare la cottura al girarrosto di due porcellini da latte.

     Una lunga tavola, formata a U, era apparecchiata per una sessantina di persone in modo decisamente festoso con tovaglie e tovaglioli di cotone colore rosso-festa con ricamata in bianco la scritta ‘Il Quercione’, e sopra alle tovaglie erano stati disposti ordinatamente: vasi di fiori, stoviglie di ceramica, bicchieri di buon vetro e posate di lucido acciaio.

     “Niente plastica né carta. Che lusso!” pensò Osvaldo, che da quando viveva nel casale usava tovaglioli di carta e stoviglie usa e getta, anzi spesso neppure queste perché per semplicità si preparava tramezzini o mangiava direttamente nella pentola o nella padella che aveva usato per cucinare.

     Insomma, il tutto dava chiaramente l’idea di un’opulenza e di una generosità che rallegravano lo spirito e lo preparavano a un piacevolissimo intrattenimento.

    

     C’era già parecchia gente che aveva preso posto a tavola. Osvaldo riconobbe Sandrone. Era in compagnia della moglie, una donna dall’aspetto arcigno, che se ne stava ‘sulle sue’ e non sembrava affatto contenta di essere lì. Osvaldo l’aveva già conosciuta in occasione del contratto per l’acquisto del casale, la salutò con cordialità ma ne fu scarsamente ricambiato. Lei gli porse la mano senza alcun calore e senza accennare una minima stretta, dimostrando chiaramente che non lo aveva in simpatia. A toglierlo dall’imbarazzo fu Teresa che arrivò all’improvviso, lo prese disinvoltamente sottobraccio e gli disse:

     “Vieni. Ti faccio conoscere un po’ di gente. I signori Alessandro e Gisella Fortone li conosci già…”

     Poi, rivolta ai signori Fortone: “Scusatemi se ve lo porto via, ma voi siete di casa e…”

     Teresa non completò la frase e pilotò Osvaldo dall’uno all’altro dei commensali, dicendogli nomi e qualifiche, che ovviamente lui afferrò poco e dimenticò subito. Perché così avviene sempre in questo genere di occasioni: la presentazione è un rito immancabile, ma solo formale e di solito del tutto inutile. Però una signora attirò l’attenzione di Osvaldo. Era non più giovane ma assai avvenente, con il viso truccato in modo un po’ eccessivo ma non volgare, come usano gli attori, ed era vestita in costume sardo tradizionale. Teresa gliela presentò come Dionigia Nieddu, una cugina che stava in Sardegna ed era appunto un’attrice specializzata in commedie dialettali. Osvaldo fu colpito dal suo aspetto e anche dal suo modo di parlare sonoro e studiato, insomma proprio teatrale, ma con una leggera inflessione sarda, appena evidente nel raddoppio fonico di alcune consonanti.

     Mentre facevano il giro si completò l’afflusso degli invitati. Allora entrò in sala Gavino. Era elegante in giacca e cravatta, non aveva più l’ingessatura, ma camminava ancora con una certa cautelosa rigidità. Fu salutato con un battimani, al quale rispose con numerosi inchini e sorrisi in direzione di chi si segnalava di più per il calore e l’impegno nell’omaggiarlo. Andò a sedersi nel posto centrale della U, dove un vaso di fiori più ricco degli altri indicava il posto del capo tavola.

     Teresa condusse Osvaldo a salutare Gavino, e fu un saluto molto caloroso da entrambe le parti, poi indicò a Osvaldo il posto a sinistra di Gavino e gli si accomodò a fianco dall’altra parte.

     “Ma io avevo pensato di stare vicino a Sandro…”

     “No. Tu stai qui, fra me e il nonno. L’ha deciso lui, me l’ha detto espressamente. Io eseguo gli ordini.”

     Osvaldo ubbidì meccanicamente chiedendosi per quale motivo gli fosse stato riservato tanto onore. Era chiaro che la sistemazione dei posti vicino al capo tavola era stata predisposta secondo un cerimoniale preciso, e infatti dall’altra parte, a destra di Gavino, c’erano le due sorelle di lui e altri parenti stretti, e a sinistra di Teresa ancora altri parenti, altrettanto stretti, disposti secondo una scala rigidamente familiare; tutti gli altri, i parenti di grado inferiore e gli amici, stavano nelle due ali della tavolata. Solo lui e Teresa, così vicini a Gavino, erano un’eccezione. “Qualche cosa vorrà dire…” pensò Osvaldo, ma non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni alla sua autorevole amica, perché Gavino si alzò con la chiara intenzione di fare un discorso. Tutti fecero silenzio e si voltarono con rispettosa attenzione verso l’oratore.

     Il quale, dopo un formale e devoto pensiero per il Signore Gesù nell’occasione della celebrazione della sua Resurrezione, ringraziò i presenti con particolare riferimento agli amici e ai vicini di podere che lo onoravano della loro presenza. Fece un esplicito riferimento a Osvaldo, che mi sembra opportuno riferire in dettaglio:

     “Qui, di fianco a me, c’è il dottor Osvaldo Novotti. Forse, prima che io entrassi qui a riempirvi la testa di chiacchiere, qualcuno l’ha già conosciuto. Gli ho dato un posto d’onore perché è nuovo a queste riunioni e cerimonie, e soprattutto perché è un coraggioso giovane cittadino che ha scelto di lasciare la città con le sue comodità per fare il nostro lavoro di agricoltori.

     In un momento difficile come quello attuale… dire momento è improprio, sarebbe meglio dire epoca difficile… dunque in un’epoca nella quale i giovani rifiutano l’impegno e i sacrifici che il nostro mestiere richiede, preferendo le mollezze e l’omologazione sociale al ribasso tipiche delle città, il nostro ospite [indicò Osvaldo] ha avuto il coraggio… spero che non sia stata incoscienza… [risatina che contagiò i commensali]… ha avuto il coraggio di rigenerarsi come coltivatore diretto. Questa scelta ci rende onore e ci inorgoglisce, e noi gli facciamo i migliori auguri.”

     Gavino finì presto la chiacchierata di apertura perché sapeva che i discorsi annoiano e di solito non vengono seguiti, ma si fa finta di ascoltarli battendo le mani di tanto in tanto, spesso a sproposito, per far capire all’oratore che deve smettere.

     E subito cominciarono le portate dei cibi:

- antipasti un po’di tutto: carne pesce e verdure, che se uno assaggiava tutto, aveva già fatto un pasto completo

- primi: culurgiones, gnocchetti, linguine alla bottarga

- secondi: agnello con olive e finocchietto selvatico e porceddu arrosto (i due maialini che i commensali avevano potuto pregustare entrando in sala e vedendoli sfrigolare nel camino)

- contorni vari

- dolci: pardulas, sebadas, candelaus

- vini del Quercione, vari e di volta in volta intonati al tipo di cibo, e l’immancabile ‘filu ‘e ferru’, però alla fine dopo i dolci.

 

     Se la storia che sto raccontando fosse anche un trattato di cucina, potrei scrivere una decina di pagine per illustrare tutte le specialità che ho elencato, ma, dato che non lo è, tralascio descrizioni e commenti. Invece dedicherò un po’ di righe a raccontare un paio di avvenimenti che resero il pranzo memorabile, almeno per Osvaldo. Perché per lui? Ma perché questa è la sua storia.

 

     Quando arrivarono in tavola le carni - ricordo al lettore che si trattava di agnelli e porcellini - Teresa chiese a Osvaldo, e nella domanda ci mise un bel po’ di provocazione:

     “Allora che hai deciso? Sei poi diventato un vegano fondamentalista? Ci hai ripensato o almeno ammetti un’eccezione? Dunque, preferisci un misto di patate e cipolle? Oppure prendi almeno un assaggino di carne? ”

     Osvaldo stette al gioco provocatorio di Teresa.

     “Sì, certo: sono un vegano puro e pronto a dare battaglia...”

     Le parole erano serie e gravide di brutte intenzioni, ma gli occhi ridevano.

     “… ma, grazie, prenderò della carne, un assaggio per farti piacere e non fare brutta figura.”

     Assaggiò, si leccò le labbra in modo vistoso e, mostrando un’espressione da goloso, chiese:

     “Posso essere sfacciato e chiederne una porzione come si deve, e magari pure maggiorata?”

     “Certo! Ma prima devi rispondere al quiz che ti avevo proposto. Te ne ricordi? Che cosa distingue gli animali carnivori predatori da quelli erbivori… a proposito della vista? E noi umani a chi somigliamo?”

     Teresa, stando al gioco iniziato da Osvaldo, lo stuzzicava con quell’aria che hanno i conduttori di quiz televisivi quando si trovano di fronte il concorrente bravo al quale presentano, con una punta di piacere sadico, la domanda finale, quella da un milione di euro, alla quale difficilmente quello saprà dare la risposta esatta. Ma lui gonfiò il torace e assunse l’aspetto di chi è tranquillo perché ‘la sa’, e declamò la risposta.

     “I carnivori, o più esattamente gli animali predatori, hanno gli occhi frontali per avere una visione anteriore utile a inseguire e catturare la preda. Gli erbivori hanno gli occhi laterali e una visione pressoché a 360 gradi per controllare l’ambiente tutt’intorno ed essere pronti a fuggire nel caso di un attacco dei predatori che può venire da ogni direzione. E noi umani…”

     Pausa ad effetto.

     “… e noi, per l’appunto, abbiamo gli occhi frontali come i carnivori predatori!”

     “Bravo, risposta esatta! Ti meriti una porzione speciale di porceddu, o preferisci l’agnello?”

     “Tutti e due. Posso?”

 

     Il programma della festa predisposto da Gavino con la collaborazione di Teresa, che per la teatralità aveva una buona disposizione, aveva previsto delle esibizioni fantasiose che, negli intervalli tra una portata e l’altra, avevano rallegrato i commensali ed evitato che essi, annoiandosi, si mettessero a spettegolare con i vicini di posto ammosciando l’atmosfera generale.

     C’erano stati: una esibizione di ragazzi truccati da mamuthones e l’esecuzione di canti popolari sardi eseguiti da volonterosi dilettanti. Alla fine, prima del tradizionale discorso di chiusura, si esibì l’ospite d’onore, l’attrice dialettale Dionigia Nieddu, che si presentò molto seria, senza sorridere agli applausi, ma chinandosi elegantemente in segno di gradimento. Poi, assunta un’aria ispirata, iniziò:

 

     Caras amigas e carus amigus, comente bieis e podeis sentiri, deu bera sarda seusarda de Sardigna deu seu!... Non vi spaventate, sto scherzando. Avete capito qualche cosa?... Siete tutti nati e cresciuti in questa terra laziale, quindi sarei un’illusa a pensare che abbiate capito tutto.”

   Pausa per aspettare qualche risatina in sala che arrivò puntuale con tanto di applauso e commenti dl tipo: “E chi lo conosce il dialetto sardo? - Io? qualche parola… - No, è troppo difficile…”

 

     Fin dalla prima visita al Quercione, Osvaldo si era stupito che in quell’ambiente non si sentisse mai qualcuno che parlasse il dialetto sardo. Eppure lì erano notevoli le tracce dell’origine isolana, come era dimostrato dalla presenza della bandiera con i quattro mori. Però aveva trovato la spiegazione proprio nel fatto che non c’era più nessuno degli immigrati originari e che tutti i componenti della tribù Nieddu erano di prima seconda o terza generazione continentale, i più giovani di quarta; tutti nati e cresciuti qui. Proprio come aveva detto l’attrice Dionigia Nieddu, che riprese il discorso:

 

   “E allora vi parlerò in italiano. Ma, con quelle poche parole dialettali e con il costume che indosso, ho voluto precisare che io sono sarda autentica e significare che noi sardi siamo orgogliosamente sardi, e so che voi, anche se siete nati e vissuti nel continente, conservate un prezioso ricordo e rispetto per il vostro antenato Giovanni, anzi Jubanne come si dice da noi, che venne qui a fondare questa comunità, una piccola colonia sarda nel continente. Il dottor Gavino… [l’attrice fece un inchino verso la persona citata]… il dottor Gavino, figlio di Jubanne, mi ha invitato appositamente per rinsaldare quel sentimento d’amore che vi lega all’isola e che voi testimoniate ora con questo pranzo tipico, con le esibizioni che ho ammirato, e con la nostra bandiera che so essere sempre esposta insieme a quella nazionale.

     Dunque mi piacerebbe parlarvi in dialetto, ma so che lo capireste poco; forse qualcuno dei più anziani sì, almeno in parte, ma non certo i più giovani né coloro che sono di origine laziale e sono entrati nella famiglia come parenti acquisiti; e di certo gli ospiti occasionali non capirebbero neppure una parola.

     Tuttavia vi voglio recitare almeno una poesia in dialetto. L’autore, Gabriele Ortu, la compose per rendere un omaggio a quei sardi che in passato emigrarono, come fece il vostro antenato Jubanne, in Italia e anche più lontano, all’estero, portando con sé un carico di dolori e speranze, ma anche la forza, il coraggio e la volontà di fare bene. A quelli come voi, che hanno trovato fortuna e costruito prosperità, vada un senso di gratitudine e un riconoscimento di bravura. A quelli che, per sfortunato destino e ostilità del prossimo e dell’ambiente, si sono persi, vada il nostro ricordo e l’augurio che trovino in Cielo la ricompensa per i loro patimenti e il loro generoso sacrificio.

     Declamerò ora la poesia ‘Fillus de Sardigna’, ‘Figli di Sardegna’, prima nella traduzione italiana e poi nell’originale in dialetto. Sarà così più facile, anche per chi non conosce sa limba sarda, la lingua sarda, capire e apprezzare la struggente nostalgia che ispirò il poeta.”

 

Figli di Sardegna (traduzione dell’autore)

Vai, amica, vai,
con le ali d’amore
e porta un saluto
ai figli di Sardegna
emigrati nel mondo
per un pezzo di pane
negato nella loro terra.

Vai, nei luoghi impervi
dove regna la disperazione
a lenire, con parole di conforto,
i cuori in tormento.

Vai nella miniera di Marcinelle,
nelle distese pianure lombarde,
dove regna la nebbia,
e nelle fabbriche, dove regna il dolore.

Vai, amica, vai,
in tutti questi luoghi
e semina i ricordi
delle aie allegre
piene di canti e d’amore
per i nostri emigrati.

Vai, col vento giusto
nei sentieri del mondo
e semina il conforto
tra i fratelli emigrati.
Vai… vai… vai…,
con la bisaccia colma
di suoni e di canti
della nostra terra
e abbraccia quei fratelli
e porta loro l’allegria
perché possano vincere
la grande nostalgia
che hanno nel cuore,
i figli di Sardegna.

Vai… Vai, porta loro
questo radioso mattino di sole
e gli odori del Campidano,
e della Barbagia, e del Logudoro.

Vai, con sogni nuovi
pieni di certezze
e accendi luci di speranze
nei loro cuori d’emigrati.

Vai… E non dimenticarti
di quei Camposanti
senza sole e senza pianti.

Vai… E deponi una preghiera
per quei fratelli sfortunati
che non torneranno … mai.
    

Fillus de Sardigna (poesia originale di Gabriele Ortu)

Bai, amiga, bai,
cun is alas di amori,
e porta unu saludu
a is fillus de Sardigna 
sparzinàus in su mundu
po unu arrogu ’e pani, 
negau in domu insoru.

Bai, in logus trotus 
de disisperu e amestura
fueddus de cuncordia
po is corus in turmentu.

Bai, a su fossu ’e Marcinelle, 
a is sartus de nebida
de is pranuras lombardas,
a is fabricas de dolori. 

Bai, amiga, bai,
in terra furistera,
e semina arregordus 
di argiolas arriendu,
e cantus di amori,
po is corus emigraus.

Bai, cun su ’entu solianu
in tot’is àndalas de mundu 
e semina cunfortu 
po is fradis emigraus.
Bai… bai… bai,
cun sa bertula prena
de sonus e de cantus
de sa terra nosta amada,
e imprassa cussus fradis,
e poneddus in prexu
po chi pozant binci’
sa grandu maladia
chi portant in su coru,
is fillus de Sardigna.

Bai… bai, portanceddu
custu mengianu bellu de soli,
cun is fragus de Campidanu,
Barbagia, e Logudoru,
a is fillus de Sardigna.

Bai, cun bisus nous
prenus de trigu ingraniu,
e allui lantias de speras,
in is corus emigraus.

Bai… E no scarescias
cussu campusantu
senza soli e senza prantu.

Bai… E lassa una pregadoria
po cussu fradi sfortunau,
chi no podit torrari…

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