Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

 

PREMESSA: Oggi do l’inizio a una serie di racconti che avranno come protagonista Osvaldo Novotti.

Sono racconti che possono essere letti singolarmente perché ognuno è un episodio compiuto, ma nell’insieme saranno un ciclo. Li scriverò e li pubblicherò senza scadenze regolari, secondo la mia ispirazione e il mio umore. Spero che il Direttore consenta e i lettori gradiscano.

  1. Cambiare vita: lasciare la città e andare in campagna

     L’acqua scava la roccia: con una goccia dopo l’altra, un “plin plin plin” metodico e inesorabile che scioglie le molecole e asporta i grumi… oppure con lo scorrere irruento del torrente che strappa e trascina i ruvidi ciottoli di montagna e li riconsegna a valle bianchi e lisci come uova.

     Così avviene per i messaggi che politici, sociologi e ‘think tank’ mandano da qualche anno in qua, giorno dopo giorno, con la regolarità delle gocce d’acqua o con l’irruenza del torrente, ai disoccupati e ai sottoccupati, allo scopo di indurli a cambiare mentalità divenendo una ‘startup’, o andando all’estero, oppure ritornando alla campagna. È un modo per non dire esplicitamente, ma di sottintendere: “Sappiate che noi, quelli che dovrebbero provvedere a darvi un lavoro, non siamo in grado di far nulla. Perciò arrangiatevi, inventatevi qualche cosa...”

     Questi messaggi distruggono, a torto o a ragione, lentamente ma implacabilmente, la tradizionale convinzione che un lavoro dipendente a tempo indeterminato, meglio se pubblico, sia la giusta realizzazione del futuro di ogni cittadino.

     Proprio questi messaggi, ripetuti e martellanti, sgretolarono nell’animo di Osvaldo Novotti la speranza di trovare prima o poi il posto fisso, che già fu l’ideale lavorativo del nonno e del padre, e lo indussero a scegliere fra le tre opzioni: startup? estero? campagna?

     Finì per orientarsi verso la campagna perché le televisioni, con le loro omologhe trasmissioni verdi: linea verde, mela verde, onda verde (no, questa non c’entra), mare ver… (no, il mare è linea blu, ma il discorso è analogo), gli riempirono la testa con gli esaltanti piaceri della vita agreste e un po’ primitiva e con la domanda suggestiva: “Cosa c’è di meglio che coltivare l’insalata, allevare conigli, mungere le mucche, allevare trote salmonate, andare in un bosco a raccogliere tartufi funghi e fragoline?”

     E così Osvaldo Novotti, lavoratore precario e spesso disoccupato, cominciò a sognare ad occhi aperti:

- vide immagini di frutta e verdura ‘bio’, confetture fatte in casa, formaggi stagionanti nella dispensa, saporiti salumi appesi a maturare, campi dorati di mèssi ondeggianti alla brezza;

- desiderò di vestirsi ‘country’, camicia a quadretti, grembiule e cappellino giallo, per vendere frutta e verdura al mercato ‘Campagna amica’ della Coldiretti;

- immaginò di ristorarsi dalle fatiche passeggiando per prati fioriti o cavalcando lungo una spiaggia deserta o in una prateria ovviamente verdissima;

- pregustò la sera quando, dopo una giornata di lavoro agricolo, si sarebbe messo in poltrona davanti al caminetto acceso ad arrostire salsicce sfrigolanti e a libare il vino novello con gli amici.

     Le proteiformi sirene televisive, questa volta in vesti bucoliche e georgiche, crearono dunque il desiderio e il sogno. I giornali con i loro articoli, i politici con le loro chiacchiere, gli amici con i loro suggerimenti, spesso ingenui ma talvolta maliziosi, trasformarono quel sogno prima in una eventualità e infine in una decisione di cambiamento.

     La goccia scava la roccia e ne cambia la forma, ma ci mette secoli, e altrettanto tempo occorre al torrente. Però l’animo degli uomini non è duro come la roccia e si lascia modificare in un tempo molto più breve. L’animo di Osvaldo fu modificato in pochi mesi.

     Era costui un giovane, però mica tanto giovane avendo superato abbondantemente i trent’anni; era uno come tanti: giustamente integrato nella società, sportivo (jogging frequente e calcetto settimanale con gli amici), istruito (laurea in lettere moderne), ragionevolmente amante del lavoro e desideroso di trovarne uno buono e definitivo. E per realizzare questo desiderio aveva dunque tutte doti ottime in teoria, ma inutili nella società attuale dove il requisito per trovare un’occupazione decente è la conoscenza di ‘Qualcuno’. Però non un qualcuno qualsiasi da cercare in una partita di calcetto, come consiglia il ministro Poletti. Infatti Osvaldo giocava a calcetto, ma vi aveva conosciuto solo ‘sfigati’ come lui o gente che aveva trovato ‘il posto’ con l’aiuto di ben altri centri di potere.

     Dunque il nostro personaggio, pur essendo volonteroso e disposto a fare qualsiasi lavoro, non ne trovava se non in occupazioni saltuarie, compensate poco con i voucher quando gli andava bene, se no in nero; e allora si lasciò convincere dal messaggio socio-politico di cui ho detto sopra. Tuttavia, avendo maturato un’esperienza di vita variegata e travagliata, non era un ingenuo e si era chiesto:    

     “Ma perché quelli, cioè i giornalisti, i politici, i maître à penser, predicano il cambiamento ma continuano a fare i loro mestieri restandoci abbarbicati come l’edera? Perché, per esempio, non si danno, loro per primi, all’agricoltura? Sono forse come gli imbroglioni che vendono i numeri vincenti del lotto invece di giocarseli loro?”

     E si era risposto giudiziosamente che i giornalisti, i politici e i maître à penser avevano una ottima occupazione, redditizia e gratificante, e non avevano dunque convenienza a cambiarla; ma lui no, un simile lavoro non l’aveva né sperava più di trovarlo. E allora perché non cambiare? Perché non divenire un pioniere del ritorno alla campagna? A lui il cambiamento conveniva.

     Si era anche confrontato con Gina, la compagna con la quale conviveva in una situazione familiare molto informale, senza matrimonio e senza desiderio di legalizzare il rapporto neppure come unione civile. Gina l’aveva ascoltato con una certa diffidenza e gli aveva detto che l’idea della campagna poteva essere buona in teoria, ma piena di difficoltà nella realizzazione pratica, e che comunque lei non era disponibile a condividerla perché non si sentiva affatto disposta a trasformarsi in una “sudicia contadinotta” e non intendeva smettere di fare la cassiera nel supermercato IPER.ONE, dove lavorava pulitamente indossando un immacolato camice azzurro; non ci si vedeva proprio a trafficare in una stalla indossando una “tuta lercia” e spalando “merda di vacca”.

     Le parole virgolettate erano state dette con evidente disprezzo e avevano ferito Osvaldo come coltellate. Lei se ne era accorta e si era subito pentita di averle dette, un po’ perché voleva bene al suo compagno e un po’ perché si era resa conto di aver esagerato con quelle cattiverie cui in fondo non credeva. Lo aveva quindi consolato con una carezza e una promessa:

     “Però io ti voglio bene, ci vogliamo bene, ma se vai a vivere in campagna non posso condividere il tuo lavoro perché io un buon posto ce l’ho già e sarei stupida a lasciarlo con l’aria che tira. Ma se non vai lontano vengo volentieri a vivere con te; vuol dire che viaggerò in macchina per andare e tornare dal lavoro. Ti porterò la roba da mangiare prodotta dall’industria, mentre tu ci metterai frutta, verdura e roba fresca, anche il pane. Ci sarà il forno per il pane? E se invece ti trasferisci lontano, vengo da te almeno nei giorni liberi e nelle ferie.”

                                                                       *     *     *

     Osvaldo si era messo a cercare una piccola azienda agricola in vendita. Aveva spulciato avvisi e annunci, interpellato agenzie e alla fine la sua ricerca aveva avuto successo; aveva trovato l’occasione giusta: un podere di cinque ettari coltivato a cereali, con annessi vigneto, oliveto, orto e frutteto, e dotato di un casale a due piani: piano terra per magazzino e rimessa di macchine e attrezzi, primo piano per abitazione, soffitta sottotetto come ripostiglio. Prezzo complessivo 250.000 euro.

     Il proprietario Alessandro Fortone, detto Sandrone perché alto e grosso, vendeva il podere perché, avendo superato i settant’anni, non riusciva più a gestirlo nemmeno con l’aiuto dei figli, i quali collaboravano poco e malvolentieri essendosi trasferiti in città dove avevano impiantato un’attività di carrozzieri.

     Aver trovato quel podere sembrò a Osvaldo un vero colpo di fortuna perché rispondeva perfettamente alle sue esigenze e poi distava solo sei chilometri dalla città, e perciò si adattava anche alle esigenze di Gina. È vero che metà della strada era una carrareccia scarsamente curata, che probabilmente in caso di pioggia o neve sarebbe stata transitabile solo da auto fuoristrada, ma lui aveva già una Panda 4X4, per cui non se ne preoccupava. Aveva comprato quell’auto tre anni prima più per un capriccio che per spirito sportivo, ubbidendo a un impulso molto velleitario, e infatti fuori dalle strade asfaltate non c’era mai andato. Però ora quell’auto gli veniva utile. Anzi pensava che nel subcosciente c’era già stata in incubazione la vocazione agricola e questo spiegava la scelta, altrimenti irragionevole, di un fuoristrada.

     Accompagnato da Sandrone andò a visitare il podere e, con il tipico entusiasmo dei neofiti che vedono la realtà per la prima volta e la vedono con gli occhi della fantasia, lo trovò bellissimo: un terreno lievemente ondulato e verdeggiante per il frumento in fase erbacea, e un piccolo parco con prato, olivi e alberi da frutta attorno all’abitazione.

     Notò invece che la casa, se paragonata a quella sua in città, era parecchio deludente.

     Osvaldo abitava infatti nel centro storico, in un appartamento ereditato dai genitori, antico ma di recente rinnovato, grande, comodo e con un ampio terrazzo panoramico. Il casale invece si presentava come un semplice parallelepipedo, come quelli che si vedono ancora nelle nostre campagne come residua testimonianza dell’Ente Maremma; era dunque scarno ed essenziale, senza neppure un terrazzino o un balcone, e aveva, come unica interruzione della semplicità geometrica, una brutta scala laterale esterna; il quadro generale, già di per sé banale, era peggiorato da intonaci scrostati e verniciature malridotte, pavimenti in vecchie marmette consumate dal passaggio infinito degli scarponi chiodati di una volta, infissi sbilenchi e spifferanti, un solo bagno con sanitari molto spartani come si usavano ai tempi di Checco e Nina … e l’acqua veniva da un serbatoio tenuto in soffitta, riempito da una pompa che pescava in un pozzo. Per fortuna l’acqua era buona e c’era l’elettricità per pomparla. E per gli altri usi.

     Tuttavia, con l’ottimismo tipico di chi inizia un’impresa sognata per mesi, pensò che quella brutta costruzione poteva essere ristrutturata e diventare, pur conservando una rustica semplicità, un’abitazione decente e confortevole e anche esteticamente pregevole: una tettoia qua, un bovindo là, una meridiana artistica (ma che sia funzionale!) sulla facciata sud… eccetera, eccetera, e così via sognando.

     Si ripromise però di chiedere e ottenere una riduzione del prezzo.

                                                                           *     *     *

     Qualche giorno dopo i due erano seduti nella cucina del casale con la tavola apparecchiata: una tovaglia incerata a quadretti bianchi e rossi, un vassoio con pane e prosciutto, una bottiglia di vino ‘di produzione propria’ (così assicurò Sandrone). Fecero uno spuntino e discussero delle condizioni di pagamento e del prezzo.

     Sandrone aveva già da tempo fatto bene i suoi conti: da diversi anni non abitava più nel podere, ma viveva con la moglie in un paese vicino, e andare a lavorare da solo gli pesava ogni giorno di più. Dato che aveva la pensione come coltivatore diretto, ci poteva aggiungere una quota annuale di 10-12 mila euro vendendo il podere, e così avrebbe avuto di che vivere bene fino a 100 anni consumando progressivamente il ricavato della vendita. La moglie era d’accordo. Invece i figli, venuti a conoscenza delle intenzioni del padre, avevano cercato di dissuaderlo, ma avevano poi rinunciato sentendo l’aut aut del genitore, vecchio sì, ma lucido e testardo: “Se voi fate tutti i lavori di campagna, allora il podere sarà vostro. Se no? Arrangiatevi col vostro lavoro. Vendo e ci campiamo, io e la vostra mamma, per altri trent’anni. Ecché, possiamo sperare di più?”

     Osvaldo aveva fatto anche lui il suo programma: vendere la casa di città, c’era già un aspirante acquirente, e accendere un mutuo per pagare il podere e lasciarsi un gruzzolo disponibile non solo per i lavori di sistemazione, ma anche per i primi tempi. Era infatti prudentemente conscio che non sarebbe stato semplice ottenere subito un buon reddito da un’attività che neppure conosceva.

     Discussero fra tramezzini e bicchieri di vino, ma senza esagerare nelle bevute, trattarono e contrattarono a lungo. Alla fine si accordarono senza troppa difficoltà perché l’affare era ugualmente desiderabile per entrambi, sia pure per opposti motivi.

     Nel giro di pochi giorni perfezionarono il contratto e Osvaldo divenne a tutti gli effetti un ‘coltivatore diretto’.

     E poi visse felice e contento? Beh, questa sarà un’altra storia.

Agostino G. Pasquali

 

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