Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

Un brutta storia da (non) dimenticare prima parte

     Guglielmo uscì dalla banca come un sonnambulo. Camminava passivamente, mettendo un piede davanti all’altro senza rendersi conto di dove stava andando.

Si sentiva confuso e senza idee né orientamenti o progetti per il futuro, il quale futuro era un buio totale dove muoversi a caso o forse era meglio fermarsi passivamente, sapendo però che ci sarebbero state comunque sofferenze, insidie e trabocchetti.

     Vagò così per una decina di minuti, camminando senza una meta, e si trovò, per caso o per abitudine, nella zona elegante della città, dove c’erano i negozi di lusso, molti chiusi, dove c’era anche il suo negozio.

     Proprio lì, sotto la scritta “ABRO-FASHION Chiuso per restauro”, sedeva per terra un mendicante il quale, vedendo Guglielmo fermarsi, alzò una mano nella quale teneva un bicchiere di plastica nel fondo del quale giacevano poche monetine. Agitò il bicchiere in modo significativo facendo un rumore sordo, poco più di un fruscio.

     L’aspetto del poveraccio era quasi osceno: magro sporco e scarsamente vestito nonostante il freddo pungente. L’uomo gli presentava il gesto di supplica timidamente, in silenzio, come già rassegnato a ricevere il consueto rifiuto che i passanti gli davano girando la testa dall’altra parte con uno scatto a dimostrare uno schifato diniego.

     Guglielmo uscì dal suo torpore e dalla confusione dei suoi pensieri, e fu preso da un impulso impellente ed irrazionale: trasse dal portafogli un biglietto da 50 euro e lo mise nel bicchiere che gli veniva teso.

     Il mendicante neppure alzò la testa ma biascicò un “grazie”; poi, ritirata la mano che teneva il bicchiere, guardò trasecolato l’offerta ed ebbe un attimo di incertezza; quindi si alzò e scappò via di corsa rivelando un’energia inaspettata.

     “Temeva forse che avessi fatto un errore e mi riprendessi il denaro?” si chiese Guglielmo con un sorriso.

     E fu il suo primo sorriso di quella brutta giornata. Decise quindi che doveva riprendere a vivere e per prima cosa, dato che era ormai l’una e non aveva fatto neppure la prima colazione, sentì improvvisamente appetito ed entrò nel primo ristorante che si trovò davanti, sperando che un buon pasto gli avrebbe ridato il buon umore.

     Nel ristorante c’erano pochi clienti, silenziosi e all’apparenza mesti, perché la crisi si sentiva anche in quell’ambiente.

     La sobria eleganza del locale, di ispirazione seriosamente medievale, era rallegrata dagli addobbi natalizi ancora presenti, ma non aveva riscontro nell’atteggiamento della clientela e neppure nei due camerieri che si muovevano lenti e svogliati nell’eseguire le ordinazioni. Però in quel ristorante lui era conosciuto come un buon cliente, disposto a spendere e a lasciare ottime mance, perciò il primo cameriere lo accolse con grande cordialità e gli consigliò premurosamente il meglio della cucina e della cantina.

     Guglielmo accettò con entusiasmo, aspettò le portate con piacevole eccitazione, ma restò presto deluso perché, nonostante la prelibatezza dei cibi e dei vini, il tormento dei pensieri tornò a occupare la sua mente e a rendere insipidi i sapori e sgradevoli gli aromi. L’episodio del mendicante, l’avere costatato che c’era chi stava peggio di lui, gli aveva ridato un po’ di vitalità, ma solo provvisoriamente. Finì svogliatamente il pasto, pagò e lasciò una mancia più generosa del solito pensando che quel giorno aveva dato un po’ di felicità a due persone: il mendicante e il cameriere.

     “E ora pensiamo al futuro...” disse a se stesso e avviò la camminata verso casa.

                                                                           *     *     *

     Strada facendo cercò di elaborare un piano per risolvere i suoi problemi. Si convinse che il direttore, insomma la donna-direttore della banca, lo aveva abilmente confuso inducendolo a sottoscrivere un impegno oneroso, dannoso, e pur tuttavia inevitabile.

     Rifletté amaramente sulla presunta uguaglianza uomo/donna: ma che uguaglianza! Le donne sono più furbe, più avide, più capaci, vincono loro, e per questo gli uomini hanno cercato sempre di tenerle lontane dai posti di potere. Ora che le leggi e le quote rosa garantiscono quella presunta uguaglianza, se ne vedono bene gli effetti. Concluse così il ragionamento:

     “Se avessi trovato ancora il vecchio direttore sono certo che ci saremmo accordati venendoci incontro. Invece con ‘quella’ non c’è stato niente da fare: più chiedevo e proponevo, altrettanto lei fingeva di apprezzare le mie parole, ma non mollava mai, neppure di un’inezia. D’altra parte devo riconoscere che lei aveva non solo, come si dice, il coltello dalla parte del manico, ma aveva anche dalla sua il codice civile, le leggi, lo Stato. Io che avrei fatto al posto suo?... Non so, forse avrei dato importanza al lato umano della questione… E forse così avrebbe fatto il vecchio direttore… Perché era più debole? più umano? Sarà forse per questo che l’hanno sostituito?”

     Dunque avrebbe dovuto cedere la proprietà della casa alla banca, cioè aveva sottoscritto un contratto obbligatorio che lo impegnava a vendere. Avrebbe potuto non rispettarlo? Certamente, ma affrontando una causa civile dagli esiti altrettanto certamente sfavorevoli. La causa sarebbe comunque andata per le lunghe… si sa com’è lenta la giustizia in Italia, basta volerlo e si allunga quanto serve, basta servirsi di un bravo avvocato. Ma i bravi avvocati costano molto e lui non se li poteva permettere; inoltre la banca avrebbe sicuramente dato il via alla richiesta di fallimento.

     Ecco, questo era il punto focale: il fallimento! che non era per lui una ordinaria procedura legale per ufficializzare un dissesto finanziario senza colpa, un modo per chiudere le situazioni debitorie con una sentenza e con la ripartizione del danno economico tra i creditori; quel danno che fa parte della attività imprenditoriale come rischio d’impresa che fornitori e finanziatori devono mettere nel conto degli incerti del mestiere. Per lui il fallimento era una vergogna incancellabile.

     Guglielmo non era tipo da imbrogli, sotterfugi e controversie legali, che gli ripugnavano. Nella sua vita, anche nella sua attività commerciale, aveva sempre agito con chiarezza e correttezza e ne aveva ricavato spesso danni economici anche notevoli. Per esempio, non aveva mai fatto ricorso alle vie legali per recuperare il credito verso un cliente il quale, chiesta e ottenuta una dilazione, non si era fatto più vedere. Riteneva che mettersi in mano agli avvocati fosse la peggiore soluzione per qualsiasi problema: si otteneva magari una vittoria in giudizio, ma non era affatto certo il recupero effettivo del credito e comunque si perdeva un cliente e ci si faceva la fama di persona cattiva e litigiosa.

     Strada facendo prese comunque una decisione e, quando arrivò a casa, la mise in atto rapidamente per non correre il rischio di ripensarci.

     Chiuse accuratamente tutte le finestre e le due porte che davano sull’esterno, lasciò invece ben aperte le porte interne, quindi staccò il tubo del gas che alimentava i fornelli e aprì la valvola a farfalla. Uscì fuori casa e andò in un bar che distava trecento metri. Si sedette a un tavolo, ordinò un doppio whisky e aspettò quasi un’ora facilitando l’attesa con la lettura delle “Lettere morali a Lucilio” di Lucio Anneo Seneca, un libriccino che aveva preso con sé un attimo prima di uscire. Da un po’ di tempo, precisamente da quando gli affari avevano cominciato ad andare male, cercava rifugio e conforto nella filosofia ed era particolarmente affascinato dall’atarassia degli stoici, cioè dalla loro imperturbabilità di fronte alle passioni e ai guai della vita.

     Poi tornò a casa. Entrò trattenendo il respiro e tappando naso e bocca con un fazzoletto. Pensò solennemente:

     “Banca, non avrai la mia casa!”

     Entrato, chiuse la porta alle sue spalle e azionò l’accendigas.

Agostino G. Pasquali    

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