Viterbo STORIA
Alessandro Gatti

(I parte)

Ancora a parlar di congiure ed intrighi tra papi e sovrani, poiché di tali scaramucce è condita la storia medievale e moderna della nostra Europa.

Aspetto ancor più interessante è che fino alla nascita del concetto di Stato Moderno, 1648 circa, l’Europa sembrò coincidere con il mondo intero e pare che Viterbo fosse stata un perno di leva importante, cruciale, per non dire fondamentale delle vicende geopolitiche a partire dall’anno Mille.

Le vicende che tra il 1267 ed il 1268 ebbero come protagonisti Carlo I d’Angiò e Papa Clemente IV, e che seguivano al celebre episodio storico della Battaglia di Benevento, videro Viterbo giocare un ruolo primario e cruciale, anche se di fatto trascurato dalle pagine dei manuali di storia.

Nel 1266 il figlio di Federico II di Svevia, Manfredi, incontrava il tenero e soave abbraccio della morte per mano di Carlo d’Angiò. Quest’ultimo conquistò il Regno di Sicilia e fece sì che l’Italia intera passasse sotto il dominio guelfo ad eccezione di Pavia e Verona che rimasero fedeli agli Svevi.

Proprio sulla base dell’accordo che Carlo d’Angiò sottoscrisse con Papa Clemente IV vanno ravvisati i germi infetti di quella miopia strategica che porterà la nobiltà a ricercare l’appoggio di una figura che darà filo da torcere alla causa guelfa. Trattasi di Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, nipote di Manfredi, nonché ultimo membro della dinastia degli Hohenstaufen.

Poiché l’Angioino aveva delle mire espansioniste sulla Toscana, non meno che il Manfredi, cogliendo l’occasione della minaccia ghibellina, che di lì a poco, avrebbe portato Corradino ad invadere i domini della Chiesa, Carlo I si diresse proprio a Viterbo per negoziare con il Papa un suo appoggio alla causa guelfa.

Clemente IV era ben lontano dal desiderare che Carlo allungasse le sue grinfie sulla Toscana, ne è prova l’epistola dello stesso Clemente, che il cornista Cesare Pinzi riporta nel secondo volume della “Storia della città di Viterbo”. In questo documento vi è avanzata la pretesa che Carlo e i suoi comunicassero con il Papa mediante un Legato e che si sistemassero fuori dalle mura della città. Ad avvalorare la tesi del buon costume, il Papa riporta nell’epistola l’esempio degli Imperatori Romani che:

“[…] quando conducevansi al Pontefice, usavano rizzare le loro tende al di fuori dall’abitato, per dimorarsene negli accampamenti[…]”

Non a caso quando Carlo d’Angiò giunse in Viterbo venne scortato fuori dalle mura della città, sulla Piana di Santa Lucia, da Guido di Monforte con i suoi ottocento cavalieri. Quivi avrebbe atteso di essere formalmente ricevuto da Papa Clemente IV.

A poco servirono le distanze prese dal Pontefice, ad egli occorreva infatti l’appoggio dell’Angiò. Corradino incalzava sui confini dei guelfi e, suo malgrado, Clemente dovrà accordare il governo della Toscana per tre anni a Carlo I.

Sebbene nei patti tra Clemente e Carlo vi fosse stabilito che quest’ultimo avrebbe dovuto cedere la Regione all’eventuale ordine della Chiesa, questi diveniva di fatto paciere e reggente della Toscana, per soli tre anni, ma era comunque uno smacco per i signori e baroni di Pisa e Siena. Quest’ultimi inveirono contro il Pontefice e protestarono per la sua decisione, ma questi altro non poté fare che securizzare l’area dalla minaccia ghibellina. Meglio si può intendere il perché della scelta del Papa da come egli rispose ai riottosi toscani in merito alla venuta di un Angiò nella loro regione:

“Anche Erode e tutta Gerusalemme tolsero un grande spavento alla novella della nascita del Salvatore, mentre prima s’erano stupidamente acconciati a patire il nefandissimo Pilato, da Governatore della Giudea. E voi, che, con grave risico delle vostre anime, amoreggiaste già tanto con Manfredi, e ricolmaste d’onori quella progenie del diavolo, vi fate ora scrupolo, e menate tanto scalpore perché abbiamo mandato in mezzo a voi un Re Nostro e un Re cattolico?[…]”

Appare assai evidente che per il Papa fosse più importante tener lontana la minaccia degli Hohenstaufen, rispetto al dispotismo eventuale di un Angioino di cui ci si sarebbe preoccupati a tempo debito.

L’errore strategico degli accordi, tra Clemente e Carlo I, fu che non venne tenuta in alcun conto l’importanza della legittimazione da parte della nobiltà. Come sosterrà secoli dopo Vilfredo Pareto, “si governa con la forza tanto quanto con il consenso”, e quegli accordi che oltre a lasciar cadere la Toscana in mano degli Angiò, esentavano anche il clero dal pagamento delle tasse, fecero perdere il consenso, tanto al Papa quanto a Carlo.

Ovviamente questa situazione giocò quasi a favore dell’Angioino, poiché fu proprio grazie all’ira della nobiltà, la quale portò a coinvolgere Corradino, che il Papa si vide costretto ad accettare di affidare la gestione della Toscana a Carlo. L’ascesa prorompente di quest’ultimo al controllo dell’Italia era solo all’inizio.

Fine prima parte

Alessandro Gatti

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