Viterbo IL RACCONTINO
Piero Carosi
Al familiare odore d’umidume vinereccio temperato da salnitri e bisolfiti d’epoca si sovrappone, fastidioso, uno strano odore…
- Nun senti gnente?
- No, c’ho da sentì?
-‘Na puzza strana…
Effettivamente qualcosa aleggia nell’aria della taverna ma poi tutto si spiega: è giorno di svuotamento degli immondezzai; il cameriere Metello, raccolto il pattume in due grossi secchi, va a rovesciarli come ogni lunedì nella fogna che, lambita la cantina, dopo un breve percorso scarica nel Tevere.
Calvisonte il callararo di Ripetta e Antènore, il corniciaro di Via Margutta hanno da dire la loro su quest’usanza.
- E penzà’ ch’ar tempo de li romani ‘sto fiume era considerato ‘n dio…
- Dìcheno – fa eco il callararo – che l’antichi de l’antichi pe’ fasse perdonà d’attraversa’ la su’ corente je facéveno puro li sacrifici umani...( pausa con bevuta)… e mó ‘sti barbari…
Mi viene spontaneo indirizzare un pio pensiero a quell’antica divinità e non sapendo cos’altro fare invito i tavernicoli a brindare al vecchio Tevere: stiamo assaporando l’ultima goccia di nèttare quando d’un tratto dal fondo della cantina si sentono urla di spavento; è Metello che risale, facendo i gradini a quattro a quattro gridando:
- Sor Ché, da la fogna è uscito ‘n’òmo che me córe dietro!
Lo sguardo incredulo del taverniere è più che giustificato perché tutti sanno che la fogna della taverna è sbarrata, verso fiume, da una robusta grata; ma non c’è tempo per pensare perché, schizzato fuori dalla cantina un Metello bianco di paura, sulla soglia appare la figura d’un uomo avvolto in una specie di toga, non più giovanissimo ma di belle forme, il viso incorniciato da una capigliatura bionda e folta e da una lunga barba. Dev’essere rimasto a lungo nell’acqua perché capelli e barba trattengono alghe, bruscoli, filacce; all’incerta luce ne osservo il viso che, più che tradire paura, è atteggiato a profonda collera: gli occhi penetranti si posano, con studiata lentezza, su uomini e cose. Il tempo sembra fermarsi e mentre l’angoscia cresce e cresce qualcuno lo invita a sedersi ma lui, incedendo solennemente e con gravità raggiunge in minaccioso silenzio il centro della taverna lanciando all’intorno occhiate di fuoco.
- Signor…come ve chiamate…voléte un po’ de vino?
Calvisonte, forse per esorcizzare l’atmosfera che si va facendo via via più inquietante, azzarda la domanda ma lo strano essere, per tutta risposta, abbrancata una seggiola la mette sul tavolo che troneggia al centro della taverna e sedendocisi con regale sussiego tuona con aria imperiosa:
- E’ così, secondo voi, che s’accoglie un dio?
Dire che lo sguardo che ci scambiamo tradisce meraviglia è poco ma mentre qualcuno pensa già alla Croce Verde, Calvisonte si fa coraggio:
- Ma voi, scusate, sor dio, che dio séte?
Gli occhi dell’uomo mandano lampi:
- Lurido schiavo... schiuma di cloaca...quale essere infernale s’è impadronito della tua immonda bocca? Sor dio a me, il dio Tevere? (nel dire così fa l’atto di gettarsi sul povero callararo che, vista la malaparata, infila la porta e scompare)…a me, alla divinità che è stata la culla della schiatta più illustre mai nata sotto il sole, a me che ho fecondato il luogo più sacro della terra, Roma…(si guarda intorno, gridando)…ma ora basta! Voglio che qui ed ora si compia un sacrificio espiatorio in mio onore: si appresti l’ara e si chiamino gli officianti, ma, soprattutto, si conducano le vittime…lo schiavo che m’ha offeso (si guarda intorno) tu che m’hai gettato il pattume in faccia e tu che glielo hai ordinato (il Sor Checco e Metello impallidiscono) perché col vostro sangue laviate tutte le immondezze che giorno dopo giorno mi fate ingurgitare!
La situazione è drammatica ma mentre s’aspetta l’irreparabile, ho come un’ispirazione:
- Grande dio Tevere…azzardo cercando di nascondere l’emozione, perché profanare questo tempio con un sacrificio cruento? Come puoi vedere, qui si celebra con grande devozione e assiduità l’illustre tuo collega, il dio Bacco, il più amato dagli uomini perché le sue are non sono bagnate di sangue ma di vino, il sangue della terra e del sole…
Le persone che hai votato al sacrificio sono sacerdoti del dio… vedi?… ogni tavolo è un altare su cui sacrifichiamo con genuina fede…(così dicendo, afferro il bicchiere con cui stavo amoreggiando e lo porgo all’uomo, pardon, al dio che, senza tanti complimenti ingurgita vino e bicchiere).
Il Sor Checco, forse ispirato dal mio gesto, afferra tutte le bottiglie, fogliette, litri, boccali che gli càpitano a tiro e li porge al dio che, senza scomporsi, li fa sparire nella vorticosa corrente della sua bocca.
A ogni ingollata il suo viso si fa meno teso ed io ne approfitto per ricordargli le tante prove d’amore che gli uomini, romani e non, gli hanno sempre tributato: dagli antichi, innumerevoli sacrifici offertigli dai padroni del mondo a quelli più recenti che rendono onore alle sue acque in ogni possibile modo…
L’uomo – pardon, il dio – sembra rasserenarsi sempre più e per dare più peso alle mie parole gli ricordo l’omaggio resogli di recente anche dalla grande Venezia che gli ha offerto i suoi doni più preziosi… la compagnia di ben tre gondole…
L’uomo…si insomma il dio Tevere sembra addirittura commuoversi a quel ricordo ed allora gli propongo anziché la celebrazione del sacrificio umano da lui preteso, la partecipazione ad una solenne processione durante la quale ogni tavernicolo sarà condannato a bere a garganella tutte le scorte disponibili. Il sacrificio, che sarà allietato da litanie e canti d’uso renderà onore alla divinità del fiume che, pacificata, potrà tornarsene se vorrà nel suo letto.
Con sollievo di tutti il dio, più biondo che mai accoglie la proposta; si salta e si grida di gioia e fra lo schiumeggiare di bianchi, rossi, rosati il Sor Checco, seguito da Metello e da tutti i tavernicoli imbocca le scale della cantina. Chiude il corteo il dio che, gonfio come un otre, fa eco ai salmodianti che con grande fervore cantano il bacchico “Pòrtace ‘n’antro litro…”.
Il canto che si allontana e muore nei meandri della cantina porta con sé immagini confuse ed ondeggianti da cui emerge, fastidiosa, la “doppia” figura del Sor Checco che, con insistenza, mi indica il “doppio” orologio appeso al muro:
-Annamo, sor Piè, è tardi…è ora de chiùde!
Ho la testa piena di nebbia e che gira, gira come una trottola mentre mi si sovrappongono immagini confuse d’un dio che beve, beve e d’un oste che, cantando canzonacce, ha compiuto il più orrendo dei delitti: anziché mettere acqua nel vino ha messo vino nell’acqua!
Appoggiandomi ai muri di via della Penna raggiungo come posso il vicino lungotevere, l’antico letto d’un antico e meraviglioso dio.
Piero Carosi