Viterbo PROVOCAZIONE
Agostino G. Pasquali
N.
H. Cavaliere dell’Ordine dei disoccupati

 

La disoccupazione nobilita l’uomo

Primo sassolino

     I dogmi, concetti assoluti che si accettano per fede, esistono non solo nell’ambito religioso, là dove sono fondamentali, ma anche in quello laico, dove però sono superflui e talvolta dannosi.

Ecco qualche esempio di dogmi laici: la democrazia è il migliore sistema politico, l’uomo e la donna sono uguali, la maggioranza ha sempre ragione, il progresso è civiltà, il vino è un vanto dell’Italia, gli italiani non sono razzisti, la civiltà cristiana è la migliore del mondo, l’Islam è una religione violenta, esiste l’oroscopo scientifico… e poi tutta una serie infinita di proverbi del tipo: è meglio un uovo oggi che una gallina domani, il buon giorno si vede dal mattino, meglio un asino vivo che un dottore morto...

     Sia chiaro che non intendo dire che i dogmi laici siano errati, tutt’altro; riconosco che molti hanno un loro valore, ma essendo dogmi non li sottoponiamo ad analisi razionale e li accettiamo così come sono anche se qualcuno è del tutto ingiustificato. Ma c’è un dogma laico che è sicuramente errato, quello che afferma che ‘Il lavoro nobilita l’uomo’.

     Chi è stato il primo a dirlo? Che cosa aveva in mente costui? Era forse ubriaco o aveva intenzione di fregare il prossimo?

     Si racconta che quel primo sia stato Charles Darwin, quello della teoria dell’evoluzione delle specie. Non si dice che motivo avesse per fare quell’affermazione, però è certo che Darwin non lavorò mai nel senso comune del termine ‘lavorare’, ma, com’è noto, fu uno scienziato sui generis pieno di entusiasmo per la ricerca libera nell’ambito delle scienze naturali. Cioè di lavoro ordinario non ne sapeva un ca… scusatemi! volevo dire: un’acca.

     La storia ci insegna comunque che quell’affermazione è stata utile ai signori nobili, che non avevano bisogno di nobilitarsi con il lavoro perché nobili lo erano già per nascita e a lavorare non ci pensavano affatto, ma l’hanno usata per invogliare il popolo plebeo a lavorare per loro e ad essergliene pure grato.

     Questo dogma essendo laico è discutibile ed infatti è stato modificato presto in un altro dogma più realistico: ‘Il lavoro nobilita l’uomo e lo rende simile alle bestie [da lavoro]’, che però è un notevole guazzabuglio semantico. Dunque c’è da discutere quanto si vuole.

     Invece questo è indiscutibile (lo dice la Bibbia!): l’inventore del lavoro è stato Dio che lo ha imposto ad Adamo ma non per nobilitarlo, anzi per punirlo (Genesi 3, 17-19 e 23):

“Con dolore ne [dalla terra] trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.

Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l'erba dei campi.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane,
finché non ritornerai alla terra”…

… Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden,

perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. 

    

Secondo sassolino

     Se è poco vero che il lavoro nobilita l’uomo è anche meno vero che lo rende libero. Ovviamente mi riferisco ai lavoratori dipendenti che, proprio perché dipendenti, sono tutt’altro che liberi, ma il discorso vale anche per i lavoratori autonomi che hanno meno vincoli ma sono comunque condizionati da orari, leggi, regolamenti e dal telefonino, per non dire della soggezione ai clienti che sono spesso ‘padroni’ molto più esigenti dei datori di lavoro.

     Purtroppo la verità è che il lavoro rende schiavi. Di ciò erano convinti i nazisti che scrissero in modo sfottente ‘Arbeit macht frei’ all’ingresso dei loro campi di schiavitù e di sterminio, detti eufemisticamente ‘campi di lavoro’.

     Devo però riconoscere che oggi il lavoro è una schiavitù molto ammorbidita da leggi protettive e dalla presenza delle organizzazioni sindacali. Posso usare un modo di dire un po’ abusato? Eccolo: oggi il lavoro è una ‘schiavitù dal volto umano’.

     Ogni lavoratore, eccettuate le situazioni eccezionali di cui dirò dopo, aspetta ogni settimana che arrivi il turno di riposo (normalmente il weekend) come una liberazione. Liberazione, appunto, sia pure temporanea. Proprio così, perché evidentemente l’uomo considera il lavoro come un servizio fastidioso (nella migliore delle ipotesi). E pure Dio, che aveva faticato per cinque giorni a creare il mondo (impresa ben riuscita) e un altro giorno, il sesto, a creare l’uomo (impresa riuscitagli nient’affatto bene), il settimo si riposò.

     Dice infatti la Bibbia (Genesi 2,3):

Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando.

     Permettetemi un ricordo personale. Dopo aver lavorato in ufficio per quasi quarant’anni, il giorno in cui lasciai il servizio mi sentii veramente libero. Pochi minuti prima che io lasciassi definitivamente la mia scrivania, un mio collaboratore, che era un toscano cortese e un po’ immaginifico, disse salutandomi:

     “Oh he gli è successo a llei? Lei oggi mi s’è ringiovanito e mi par holmo d’entusiasmo. Pare uno studente il primo giorno di vahanza!”

     Infatti, proprio come uno studente in vacanza, mi dedicai subito a viaggiare, leggere, studiare, fare sport, e ai tanti hobby che hanno sempre caratterizzato la mia vita. Probabilmente sono più attivo e rendo di più alla società adesso, che sono pensionato, di quando ero un lavoratore, cioè ero come un mulo, sia pure graduato, attaccato al carretto del padrone.

*     *     *

     A proposito di studiare e fare hobby sciolgo la riserva fatta sopra quando ho parlato di situazioni eccezionali di lavoro che non ci fanno sentire schiavi in ansiosa attesa del riposo settimanale.

     Dunque le attività fatte per hobby, anche quando sono lavori materiali e pure impegnativi e pesanti, non sono forme di schiavitù, ma libere scelte che danno soddisfazione. Parlare di nobiltà è esagerato anche in questi casi, ma certo non si tratta di schiavitù, perché si è liberi di fare (cosa – come – quando) o non fare, liberi di continuare o smettere, secondo la propria volontà. E se questa non è libertà, che cos’è?

     Lo stesso discorso vale per studiare, che è un’anticipazione del lavoro. Nella mia vita ho sempre studiato, prima a scuola poi durante gli anni di lavoro (norme di legge, circolari, istruzioni) per restare aggiornato, ma ho sempre studiato e imparato senza soddisfazione, talvolta controvoglia e con l’obiettivo della minima fatica per un risultato decente.

     Dopo il pensionamento ho ricominciato a leggere la storia che a scuola mi era antipatica, e la filosofia che al liceo mi pareva roba da matti inconcludenti (in verità non ritengo neppure ora che la filosofia, intendo quella classica, sia uno studio serio; oggi la nuova filosofia è invece vicina alle scienze, si occupa di logica e di linguaggio formale e ha un suo grande valore conoscitivo); mi sono dedicato alla letteratura trovando che i grandi romanzi classici sono miniere di bellezza, di saggezza e regalano un piacere intellettuale che a scuola non avevo conosciuto. Ho poi iniziato a scrivere per hobby e quello che state leggendo è un frammento di questa attività. Potete non condividere, anche disprezzare, quello che ho scritto, ma a me ha fatto piacere scriverlo e penso che possa essere, almeno un pochino, stimolante e perciò utile.

     Dunque chi svolge un’attività per interesse personale svolge materialmente un lavoro ma non ne è schiavo. Questo vale per gli hobbysti, ma vale anche per gli artisti quando esercitano la loro arte non per il guadagno ma per passione. Hobbisti e artisti non hanno mai la smania del weekend liberatorio, non gli serve, perché sono liberi.

 

Conclusione

     Alla fine del ragionamento, che sto cercando di tessere con fili di logica, di economia e di sociologia, nasce la domanda: qual è la forza o l’interesse che mantiene l’uomo schiavo del lavoro? Risposta ovvia, scontata, addirittura superflua: è il compenso, la necessità di guadagnare per vivere. E per questo nella situazione attuale è assai meglio avere un lavoro con un buon reddito che essere disoccupati senza reddito. Ma non altrettanto ovvia è un’altra domanda che ne deriva:

     “E se questa necessità non ci fosse? Se, senza dover lavorare, potessimo avere tutti ciò che serve per vivere e anche un po’ di più? cioè non il minimo per sopravvivere ma il giusto per vivere bene?”

     Devo richiamare quello che ho scritto due settimane fa nel ‘sassolino’ n.8 (Titolo: Il lavoro è come il mantello di Martino). Ho scritto che il lavoro umano è destinato a ridursi sempre di più (e forse esaurirsi) sostituito da quello dei robot. Ho anche scritto che essendoci comunque produzione e quindi ricchezza, basta distribuirla con giustizia per far vivere bene un’umanità disoccupata. Ma disoccupata in senso buono, oserei dire ‘nobile’. In fondo è un po’ quello che vorrebbero coloro che ipotizzano il reddito di cittadinanza per tutti, però lo chiedono in modo confuso e velleitario: infatti costoro aspirano ad un reddito di sopravvivenza ma hanno vaghe idee di dove reperire i fondi che occorrono per qualcosa di meglio.

     La soluzione è ridistribuire la ricchezza. Lo so che è un’utopia pensare che chi ha troppo accetti di dividere il troppo con chi ha poco. Purtroppo Dio nel sesto giorno della creazione era probabilmente stanco per i precedenti cinque giorni di lavoro e creò l’uomo malamente, lo creò presuntuoso, litigioso e soprattutto egoista. Si accorse subito dei difetti di questo suo prodotto ma, dato che allora non c’erano le discariche, se lo tenne così com’era. Però, essendo saggezza infinita, lo cacciò via dal paradiso, mica se lo tenne vicino a sé; poi, essendo bontà infinita, mandò suo Figlio per redimerlo, ma era destino che l’impresa finisse male.

     Dunque sperare che l’egoismo dell’uomo si converta in altruismo è un’utopia. Ci ha provato Gesù e abbiamo visto com’è finita. Ci prova Papa Francesco ed è accusato di essere comunista…

     Bah! Per ora chiudo qui, scuoto pessimisticamente la testa, però mantengo viva una piccola speranza nel miglioramento dell’umanità. Intanto desidero attribuirmi un titolo nobiliare che mi spetta per essere disoccupato.

Agostino G. Pasquali
N.
H. Cavaliere dell’Ordine dei disoccupati