Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA Sesto racconto (seconda e ultima parte)
Un racconto di Agostino G. Pasquali

 

Vittorio Neri, tombarolo per una notte

     Erano passate due ore dall’arrivo. L’attesa era noiosa, non si vedeva più nessun movimento perché i tombaroli, approfondito lo scavo, erano completamente scomparsi dalla vista.

Il freddo era divenuto più pungente e insopportabile per chi stava immobile. Tore e Vittorio erano stati costretti a rifugiarsi nella cabina del furgone e si riscaldavano con il caffè e la grappa che Tore aveva portato in abbondanza; aveva portato un termos di caffè e una bottiglia anche agli uomini che scavavano.

     Vittorio stava fisicamente a disagio ed era sempre più pentito di essersi fatto trascinare in quell’avventura. Tuttavia sperava di essere ricompensato dalla visione di un tesoro. Potrei dire, se il lettore mi autorizza un paragone erudito, che si sentiva come  Heinrich Schliemann quando stava per scoprire il tesoro di Priamo.

     Altre ore erano passate, lente e noiose. Mancava poco all’alba quando uno degli scavatori, quello che stava più in profondità, esclamò:

     “Ecco. Ci siamo. Ecco l’ingresso della tomba. Trovata!”

     Il tombarolo che stava di vedetta fece da lontano un segno di intesa a Tore che informò Vittorio, il quale, dimenticata ogni ubbia e titubanza, aprì lo sportello della cabina per precipitarsi verso lo scavo. Ma Tore lo trattenne:

     “Dove vai? Non c’è niente da vedere. La tomba non è aperta. Mica si può entrare giù dentro così subito. Tu moriresti asfissiato e l’improvviso cambio di temperatura e umidità potrebbe rovinare la roba. Ora loro faranno dei fori per far cambiare l’aria nella tomba, ma deve essere una ricambio lento, ci vorranno 24 ore. Non ci si può entrare prima di domani notte. Ora i tombaroli maschereranno lo scavo. Torneranno domani sera. Lo scavo è andato bene. Trovata! Ora noi ce ne andiamo a dormire e torniamo domani.”

     Una pausa e concluse:

     “Oh! Non dire niente a nessuno, nemmeno in famiglia. Basta una parola imprudente e ci può scappare una soffiata ai carabinieri o alla finanza. La seconda notte è quella più pericolosa, proprio per questo motivo: che per l’eccitazione qualcuno si lasci sfuggire qualche parola di troppo.”

*     *     *

     Erano tornati a Sovrana. Il viaggio di ritorno era stato meno pesante per Vittorio che, un po’ per la stanchezza e un po’ per la grappa bevuta, si era pure addormentato nonostante la scomodità del furgone.

     Al momento di lasciarsi Vittorio si rifiutò inaspettatamente di completare l’avventura la notte successiva. Si giustificò affermando che il viaggio gli aveva fatto male per la scomodità e il freddo, che era rimasto deluso per l’attesa noiosa e inconcludente, e poi lui era una persona metodica che deve andare a letto alle 23, farsi una buona dormita fino alle 7, se no poi sta male per tutto il giorno. Saltare un riposo notturno? Vabbè, uno passi. Ma due consecutivi no, assolutamente no.

     Quando una persona accampa troppi motivi per rifiutare un’offerta, vuol dire che il motivo vero è un altro, che non si vuol dire o non si può dire. In realtà quelle di Vittorio erano scuse pretestuose perché non voleva confessare di essere soprattutto preoccupato per il rischio di venire sorpresi dai carabinieri, rischio maggiore la seconda notte, come aveva detto Tore. Il quale capì benissimo il vero motivo della rinuncia e se ne andò deluso. Ma al momento di partire disse scherzando, cioè con un sorriso appena un po’ sfottente:

   “Ma non sarà che sei un fifone?”

    Il sorriso non attenuò il senso dispregiativo dell’aggettivo e Vittorio non lo prese bene. Si salutarono con una certa freddezza. Tore gli promise comunque che si sarebbe fatto vedere dopo qualche giorno portando le fotografie di quello che sarebbe stato trovato.

*     *     *

     Una settimana dopo Tore preannunciò per telefono una visita e senza complimenti, come si fa tra veri amici, si autoinvitò a pranzo:

     “Fammi trovare qualche cosa di buono, di tipico della tua zona. Fai per me come hai fatto con l’onorevole. Ci conto e… ti farò una sorpresa.”

     Vittorio, che non era tipo da tenere il broncio e tanto meno da coltivare rancore per quell’accusa di ‘fifone’, lì per lì indigesta ma ormai digerita e dimenticata, chiese:

     “Ma non conosco i tuoi gusti, l’abbitudini. Che te piace?”

     “Va bene tutto, io mangio tutto, basta che sia cucinato come si deve, meglio se è roba tipica, tradizionale, anche un po’ rustica.”

     “Te porto all’Antica Hostaria. C’hanno certe pappardelle alla lepre, lepre vera, mica conijo, che non te dico… e dopo… porchetto da latte arrosto. Sentirai che robba!”

     Tore arrivò con una grossa Mercedes nera poco dopo il mezzo giorno della domenica successiva. Questa volta non era venuto con il furgone e Vittorio notò quanta importanza gli dava quell’auto, e come lui ne era disceso e si era guardato intorno, compiacendosi dell’interesse chiaramente dimostrato dalla gente che usciva proprio in quel momento dalla messa solenne. Si vedeva che l’importanza se la sentiva e la mostrava con piacere. Il pavone non apre mica la coda per farle prendere aria!

     “Se vede che lo commercio antiquario rende bene! – pensò Vittorio – mica come lo ‘Museo’ che, pure co’ la vendita dei ‘suvvenì’ me copre, sì, le spese, ma c’avanza poco!”

     Tore estrasse dal bagagliaio dell’auto una scatola di legno, una di quelle confezioni preziose e appariscenti che si usano per un regalo di classe, una bottiglia ‘magnum’ di champagne autentico.

     Entrarono in casa e Tore porse la scatola a Vittorio dicendo:

     “Questo è un omaggio per te, da parte dell’onorevole.”

     “Grazie. Lo metto in frigo che, se s’arinfresca in tempo, dopo ‘l pranzo all’Hostaria, tornamo e ce lo bevemo con un bel brindisi all’onorevole.”

     Tore scoppiò a ridere, e rideva, e rideva, sembrava che non potesse smettere più. Quando riuscì a tornare serio, disse a Vittorio che lo guardava un po’ stranito e anche risentito:

     “Questa è la prima volta che sento qualcuno che vuole bersi un bucchero etrusco!”

     Riprese la scatola, la aprì, tolse un rettangolo di gommapiuma e mostrò che all’interno, adagiato su un pannello morbido, trattenuto delicatamente ai lati da blocchetti anch’essi di gommapiuma, c’era un oggetto nero, lucido. Lo estrasse con precauzione: era una coppa etrusca a due manici alti.

     “Si tratta di un bucchero, precisamente un Kantharos. Come vedi è una coppa ‘per bere’, non ‘da bere’. Ma ovviamente nessuno si sognerebbe di usare un Kantharos etrusco come un volgare bicchiere da tavola. Ti piace?”

     Vittorio era rimasto senza parole. Contemplava l’oggetto senza dire nulla, ma gli si leggeva in volto l’ammirazione e il desiderio di prenderlo in mano. Tore capì e glielo porse. Vittorio lo prese e lo accarezzò. Fu affascinato dalla delicatezza delle forme, dall’elegante profilo, dalla superficie liscia e gradevole al tatto.

     Ci sono poche cose al mondo che, come un bucchero etrusco, nella assoluta semplicità della forma esaltata dal colore nero, diano una così rara sensazione di bellezza sublime.

     Vittorio avrebbe voluto dire un frase degna dell’oggetto prezioso, fare un complimento adeguato, dare un giudizio con parole forbite e ricercate… ma le idee gli si confusero per l’emozione e riuscì a dire soltanto:

     “È leggero, mannaggia com’è leggero. Pare una piuma…”

     “Tutto qui? – chiese Tore – Ma allora ti piace? Dimmi se ti piace. Perché è per te.”

     L’espressione di Vittorio cambiò, da estasiata si fece preoccupata. Disse:

     “Lo sai che non voglio robba illegale. Non sò tajato pe ste cose. Senza offesa. Non ve dovete offende né tu né l’onorevole… ve ringrazio, ma non posso accettà.”

     “Ma sì, che puoi. Guarda che questa è una copia, una copia eccellente, fatta da artigiani che a dirgli artigiani è un’offesa. Sono artisti. È di valore. Questo Kantharos costa… non te lo posso dire quanto. Sarebbe indelicato. Vabbè! Per darti un’idea ti dico che costa come un orologio di quelli di gran marca.”

     “Ma pare proprio una coppa autentica. Ingannerebbe chiunque. Ne ho viste nei musei e questa è proprio uguale a quelle. Pure il dottore mio, ‘l dottore medico, ce n’ha una a studio, ma non è bella così, e lui dice che è autentica.”

     “Vedi, Vittorio? Ci sono artigiani che hanno messo a punto tecniche di lavorazione che imitano perfettamente il bucchero etrusco e sanno come antichizzarlo. Ci vuole tanta abilità, tempo e lavoro, e quindi anche il costo è elevato. Solo un vero esperto, oppure analisi scientifiche, possono dimostrare la falsità di un bucchero fatto bene. Sospetto pure che addirittura i musei, specie all’estero, espongano copie invece di originali. Ma non importa.”

     “Come sarebbe a dì: ‘Non importa’? Nel museo mio io ci ho esposti solo origginali dal ‘600 in poi. La copie ce l’ho e le vendo pure come suvvenì, ma è chiaro che sò copie e se vede…”

     “Ora ti spiego. Tante persone, a cominciare dal tuo dottore, desiderano che sia vero il bucchero che gli è stato venduto di nascosto, in un incontro clandestino, con un’abile recita drammatizzata per fargli pure prendere un po’ di paura, che è un’emozione aggiuntiva, che poi se ne vantano. E quel falso, che a volte è pure fatto male, lo pagano molto caro credendolo vero.

     La gente preferisce l’illusione alla realtà. Su questo principio si basa la forza della pubblicità. È questo il meccanismo che spinge la gente a comprare i biglietti delle lotterie, a puntare denaro nei giochi d’azzardo, a commettere errori d’ogni genere... e a comprare un brutto falso pagandolo come autentico e illudendosi che sia autentico.

     Lo sai, Vittò? come dicevano i nostri antenati latini duemila anni fa? Dicevano: “Putant quod cupiunt”, soggetto sottinteso: ‘Homines’. Cioè: gli uomini credono vero ciò che desiderano sia vero… e prendono le fregature, e qualche volta si rovinano la vita.

     Ma se loro sono contenti così, a te che importa?”

Fine

Agostino G. Pasquali