Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA L’arrivo di un artista di città, bene avviato alla gloria del palcoscenico, suscitò tensione
Un racconto di Agostino G. Pasquali
 

  1. L’albero della cuccagna

     Fino agli anni cinquanta del secolo scorso era in uso nelle feste paesane un gioco a premi, una gara di forza fisica e agilità, che consisteva nell’arrampicarsi su un palo in cima al quale c’era un premio in prodotti alimentari. Era l’albero della cuccagna.

     Ancora oggi questo gioco viene riproposto sporadicamente qua e là nei nostri paesi, ma solo come rievocazione di un antico uso, come manifestazione nostalgica del ‘piccolo mondo de na vorta’ (come ho avuto occasione di definirlo in altri precedenti racconti).

     Chi ha una certa età (per intenderci: quella della canizie o della calvizie) probabilmente ha visto quella gara quando era bambino, se la ricorda, e magari, se di anni ne ha proprio tanti, vi ha partecipato da giovane. Per chi non la conosce o ne ha solo una vaga idea dovrei dare qualche spiegazione, ma la ometto per non essere noioso. Chi vuole saperne di più può consultare ‘Albero della cuccagna’ su Wikipedia. Comunque nel corso del racconto si capirà meglio di che si tratta. A me preme raccontare un episodio avvenuto a Sovrana proprio in occasione di una arrampicata sull’albero della cuccagna.

*     *     *

     Era il 15 agosto 1945.

     Come tutti gli anni, a Sovrana, il ferragosto era un’occasione di grande festa e quell’anno fu una festa molto particolare, ‘ricordatora’, come si diceva una volta nel linguaggio familiare, perché era appena finita la guerra e c’era un gran desiderio di tornare a vivere con allegria e con fiducia nel futuro.

     La mattina venne dedicata alle cerimonie religiose: messa solenne nella chiesa di sant’Antonio Abate e processione con la statua del santo e un quadro raffigurante l’Assunta. Giro per le vie del borgo ornate con l’esposizione di fiori e teli multicolori. I sovranesi, sollecitati dal parroco che aveva una particolare vocazione per la scenografia religiosa, avevano esposto alle finestre: copriletto, tende, tappeti (pochi, di quei pochi abbienti che li possedevano); chi non aveva altro aveva steso fuori almeno le lenzuola candide di bucato.

     Quindi, all’una, pranzo di festa con fettuccine fatte in casa e cappone arrosto. A proposito: oggi pochi sanno cos’è il cappone, e meno che pochi ne hanno gustato la sapidità, la morbidezza e la succulenza. Non spiegherò come le abili mani delle donne prendevano un galletto e lo rendevano cappone, perché è abbastanza facile da intuire.

     Se c’è qualche animalista che sta leggendo questo passo, probabilmente inorridirà. Ma gli domando: “C’è differenza tra questa operazione e quella che oggi si fa abitualmente per sterilizzare i maschi di cani e gatti? Operazione consigliata dagli stessi animalisti e spesso pagata dallo Stato?”

     (Apro una parentesi per chiedere agli amici degli animali e ai vegetariani etici di essere tolleranti con me per questa rievocazione nostalgica. Sono uno che ha provato la fame del tempo di guerra e non aveva a disposizione i supermercati traboccanti di cibo vegetale e integratori alimentari. Né esistevano quelle alchemiche miscele di legumi e cereali, che oggi si vendono truccate da polpetta, salsiccia o bistecca per dargli un aspetto decente e un sapore passabile. Allora i vegetali (fagioli, fave, patate, farina gialla) erano il cibo di tutti i giorni, per la sopravvivenza; riempivano lo stomaco saziando la fame, ma provocavano anche disturbi sgradevoli e problemi di salute per i bambini.

     A proposito della farina gialla: si diceva ‘di granturco’, non si diceva elegantemente ‘di mais’, come si usa attualmente. E forse è per questo motivo che la polenta di granturco pareva così cattiva al mio palato di ragazzino, mentre oggi la polenta di mais è una sciccheria da gourmet). 

*     *     *

     Nell’estate del 1945 la penuria di beni, causata dagli eventi bellici, si sentiva ancora; il piano Marshall sarebbe venuto dopo qualche anno e il boom economico non era neppure immaginabile. Per questi motivi le cose buone (un prosciutto, salumi, formaggi, fiaschi di vino) che stavano in cima all’albero della cuccagna erano un’attrattiva golosa per i giovani che si preparavano ad arrampicarsi per appropriarsene.

     Alle ore 17 cominciò la salita all’albero della cuccagna.

     L’albero consisteva in un grosso palo di castagno selvatico, di quelli che crescono schietti e diritti dalle ceppaie dei castagni cedui. Quei pali si usavano un tempo per linee elettriche e telefoniche e per la tessitura dei sostegni di solai e di tetti, e qualche volta si usano ancora oggi per sostituire le travature troppo vecchie nelle case antiche, per conservarne il fascino.

     Il castagno è un gran buon legno, è molto adatto per farne mobili solidi belli e durevoli, ma oggi gli si preferisce il fiacco ‘abete tinto noce’ o, peggio, il composito di trucioli e resina, tutta roba che dura poco e arricchisce l’Ikea.

     Era dunque un palo alto sei metri, con un diametro di trenta centimetri alla base e venti in cima. Era stato accuratamente scortecciato e piallato per togliere ogni scheggiatura che avrebbe potuto ferire gli arrampicatori, ma soprattutto per eliminare ogni deformità che sarebbe potuta divenire un aiuto nell’arrampicata facilitando la presa delle mani o l’appoggio dei piedi. Inoltre era stato completamente unto di grasso di maiale per renderlo scivoloso e impedire una facile salita già ai primi tentativi. Infatti il divertimento di chi assisteva stava non soltanto nell’ammirare la bravura nel salire, ma anche nel vedere le scivolate di chi provava ad arrampicarsi. L’arrampicatore saliva fino ad un certo punto, faticosamente, a forza di braccia e di gambe, saliva venti-trenta centimetri per bracciata e ne perdeva quasi altrettanti in scivolata ogni volta che allentava la presa delle mani per portarle più in alto. Quindi, prima di arrivare in cima, esauriva le forze ed era costretto a lasciarsi scivolare giù.

     Ad ogni discesa gli spettatori ridevano ed esclamavano: “Oooooh! Sìììì! Arifacce! Daje!”, manifestando quel po’ di sadismo che c’è sempre di fronte alla prova fallita da uno che è bravo, ma deve dare spettacolo il più a lungo possibile.

      Con quel fondo di moderato scetticismo che è insito nel mio carattere, ritengo che, se è gratificante il successo dell’atleta per cui si tifa, sono anche più gratificanti gli insuccessi degli avversari. Non consiste forse anche in questo il piacere di assistere ad una gara sportiva?

     Quel giorno partecipavano alla salita cinque giovani del posto, uno dei quali era Vittorio Neri allora ventenne pieno di energia ed entusiasmo, e un sesto concorrente venuto da fuori. Costui disse di chiamarsi Mario, non specificò altro, ma la gara era organizzata alla buona, senza alcuna formalità, e venne accettato semplicemente così.

   Era piccolo e magrolino, e su di lui nessuno avrebbe scommesso neppure un soldo. E infatti quando veniva il suo turno saliva faticosamente un paio di metri e si lasciava scivolare a terra scuotendo la testa. Gli altri invece ogni volta si sforzavano di progredire un po’. Si andò avanti cosi, per tentativi falliti, ma salendo sempre un po’ di più perché, a forza di salire e scendere, il grasso veniva eliminato con lo strofinio dei pantaloni e delle canottiere, e la presa di mani e gambe migliorava.

     Dopo una notevole serie di tentativi il palo era ormai pulito fin quasi in cima, ma l’impresa era ancora difficile perché la stanchezza annullava il vantaggio della ripulitura e quindi della migliore presa. Alla fine proprio Vittorio riuscì a raggiungere il premio più basso, un salame, lo prese e scese soddisfatto. Ormai la strada era aperta e l’entusiasmo raddoppiava le forze. Così, ogni due o tre tentativi, qualcuno saliva un po’ più in alto e raggiungeva un premio: una coroncina di salsicce, una stecca di sigarette, una formetta di pecorino, due fiaschi di vino.

     Tra i concorrenti sovranesi c’era un tacito accordo: fare in modo che ognuno avesse almeno un premio per cui chi aveva già preso qualcosa non cercava a tutti i costi di impadronirsi di altro. La gara andava avanti fino a quando restava solo il prosciutto, e a quel punto: ognuno per sé, senza complimenti né cortesie.

     Dispiaceva dunque ai giovani del posto che il forestiero Mario non riuscisse ad avere la sua parte. Provarono ad aiutarlo spingendolo da terra con le mani fin dove potevano. Ma anche così il piccoletto andava un po’ più su, ma non riusciva ad arrivare fino ai premi.

     Quando restò solo il prosciutto, che stava proprio in cima, appoggiato e legato su due tavolette fissate a croce orizzontale, cominciò l’assalto finale. Venne anche il turno del forestiero che ricominciò a salire a fatica tra le risate della gente. Dopo i soliti due metri ebbe un attimo di esitazione, sembrò che rinunciasse, ma inaspettatamente accelerò le bracciate e prese a salire come un gatto che ha avvistato una preda in cima all’albero. Raggiunse il prosciutto, lo liberò e se lo portò a terra.

     Ebbe applausi dagli spettatori e qualche “Bravo!” anche da parte dei concorrenti locali. Questi però dopo qualche attimo si guardarono in faccia e si resero conto che quello li aveva fregati. All’inizio aveva finto di salire, aveva lasciato che loro faticassero a pulire il grasso, e intanto risparmiava le forze. Poi, quando aveva capito che era venuto il momento buono, era salito fresco e agile e si era preso il premio migliore. Ci rimasero male, e due di loro erano particolarmente arrabbiati per la delusione di aver perso il prosciutto, e di più per lo scorno di essere stati imbrogliati. Si consultarono brevemente e decisero di dire al furbastro almeno le ‘classiche quattro’, di ottenere delle scuse, e poi chissà…

     Intanto Mario, che era un tipo che sapeva come va il mondo e che in un ambiente estraneo è meglio essere previdenti, se ne era andato via dalla piazza.

     Vittorio, che già allora, nonostante la giovane età, aveva un ottimo carattere equilibrato, consigliò di lasciar perdere, ma i due più arrabbiati non gli dettero retta. Chiesero in giro e seppero che l’uomo era stato visto prendere una bicicletta in un angolo della piazza, mettersi a tracolla una sacca con il prosciutto e avviarsi in direzione di Civita Romana. Uno dei due arrabbiati aveva una motocicletta, una vecchia Guzzi Airone verde oliva, residuato bellico. Andò a prenderla e, caricato anche il compagno, si avviò alla ricerca del forestiero.

     Tornarono dopo un’ora, arrabbiati più di prima. Dissero che non erano riusciti a trovarlo, perché forse, temendo di essere seguito, Mario si era nascosto da qualche parte.

*     *     *

     Il giorno dopo, un contadino sovranese, che percorreva a cavallo del suo mulo la strada che da Sovrana porta a Civita Romana, notò dall’alto della sua cavalcatura qualcosa che luccicava in mezzo ad un cespuglio in fondo alla scarpata che scendeva ripida verso il fosso Buione.

     Incuriosito scese, si aprì un passaggio tra i rovi e vide che il luccichio era prodotto da una bicicletta. La tirò per liberarla dal cespuglio e portarsela via, ma lo spostamento delle frasche rivelò che sotto la bicicletta c’era il corpo di un uomo. Aveva il volto sporco di sangue rappreso e gli occhi vitrei, aperti a fissare il vuoto. Era morto. Lo riconobbe: era Mario, l’arrampicatore misterioso.

     Si era trattato di un incidente causato dalla fretta di allontanarsi da Sovrana? Probabile, perché a quel tempo le strade secondarie erano sterrate, ed era facile sbandare in frenata e finire fuori strada.

     Oppure era stata un’aggressione per rubargli il prosciutto, che infatti era scomparso? Possibile tenendo conto della penuria e della fame che c’era in quel periodo.

     Quelli non erano tempi da polizia scientifica. I carabinieri fecero un sopralluogo come da regolamento, non trovarono documenti, interrogarono un po’ di gente e tutti dissero di non aver mai visto quella persona, se non alla festa di ferragosto, e quindi, a parte il nome Mario, non si seppe chi fosse.

     Un trafiletto sui giornali. Qualche pettegolezzo. L’indagine fu presto archiviata come ‘Probabile morte accidentale per caduta da bicicletta. Vittima non identificata’.

     Nessuno si presentò a cercare una persona scomparsa. Nessuno la pianse.

     Del resto, dopo le stragi della guerra finita da poco, la morte di uno sconosciuto non poteva essere altro che un motivo di chiacchiere per le comari al lavatoio e di fantasticherie per gli uomini all’osteria. Ma solo per qualche giorno, poi più nulla.

Fine

Agostino G. Pasquali