Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA Nella primavera dell’anno 1963 venne ad abitare a Sovrana la famiglia Rossini, proveniente da Pesaro
Un racconto di Agostino G. Pasquali

 

     PREMESSA per i fedeli lettori che seguono i miei racconti dall’origine, e per qualche altro lettore che conto di avere acquisito con il tempo.

     Gentili lettori, forse ricorderete che tempo fa scrissi una serie di brevi racconti ambientati nel borgo di Sovrana, riuniti in seguito nel racconto lungo ‘Piccolo Mondo a Sovrana’.

     Di tanto in tanto riaffiorano nella mia memoria (o, se preferite, nascono dalla mia fantasia) altri episodi della vita semplice, un po’ naïf, di quel piccolo borgo. Mi fa piacere raccontarli e spero che faccia piacere a voi leggerli. Ricomincio con ‘Don Bucononsò’ e ne seguiranno altri. Questa non è un minaccia per voi e nemmeno un impegno per me. Consideratela più semplicemente un’intenzione. 

  1. Don Bucononsò (Prima parte)

     Nella primavera dell’anno 1963 venne ad abitare a Sovrana la famiglia Rossini, proveniente da Pesaro. Era composta dal capo famiglia Otello e dalla moglie Aida.

     Otello Rossini aveva vinto il concorso per il posto di segretario comunale del comune di Civita Romana (il precedente segretario era andato in pensione), e avrebbe dovuto prendere domicilio proprio a Civita Romana, come sarebbe stato ovvio, ma su consiglio del sindaco, cav. Cavalli prof. Pio, aveva preferito andare ad abitare nella vicina frazione di Sovrana in località Bosco Scuro, prendendo in locazione la metà di una villetta bifamiliare appena costruita.

     A Otello l’ambiente sovranese era piaciuto: zona di nuovo sviluppo urbanistico per benestanti, ambiente pittoresco, suggestivo, tranquillo, canone d’affitto un po’ alto ma sostenibile; e poi contava di trovare proprio lì a Sovrana il posto di lavoro per la moglie che era maestra elementare disoccupata.

     Il sindaco, cavalier Cavalli professor Pio (ripeto i titoli senza abbreviazioni perché ci teneva molto ad esibirli e proprio in quell’ordine), era un perfetto andreottiano, e se dico andreottiano si capisce subito che era scaltro come una volpe e sornione come un gatto; aveva preso quindi le giuste iniziative per tenere quanto più possibile lontano dalla casa comunale il nuovo segretario. Infatti un segretario non abitante in paese, che quindi non facesse casa e bottega, era l’ideale per un sindaco maneggione come lui; però non bastava che l’altro fosse poco presente, doveva essere anche ben disposto a collaborare.

     Infatti per un sindaco è molto importante che il segretario comunale sia collaborativo perché è colui che gli mette a disposizione:

- le sue conoscenze in materia di leggi e cavilli,

- la sua abilità nell’aggirare le pastoie burocratiche,

- la sua inventiva nell’ideare i marchingegni per neutralizzare i consiglieri di minoranza se fanno un’opposizione troppo fastidiosa.

     Perciò il sindaco, cav. ecc. ecc., aveva addomesticato subito il nuovo segretario trovandogli una abitazione molto buona, ma un po’ lontana, e promettendogli una ‘raccomandazione’ per far ottenere alla signora Aida un posto di supplente nella monoclasse elementare di Sovrana.

     A luglio arrivò anche il figlio ventunenne dei signori Rossini per passare l’estate con i genitori. Era un cantante lirico che stava perfezionando i suoi studi musicali a Pesaro nel celebre Conservatorio G. Rossini.    

     Considerando le informazioni che ho dato viene ovvia la domanda:

     “La melomania era forse una caratteristica di questa famiglia?”

     La risposta non può che essere positiva. Infatti il cognome Rossini, i nomi Otello e Aida, la provenienza Pesaro, e ora l’arrivo del figlio cantante lirico, tutto quest’insieme evocava una melomania piuttosto evidente. Ma non basta ancora, perché devo dire che Otello si vantava di far parte di un albero genealogico che, di ramificazione in ramificazione, arrivava al grande Gioacchino Rossini. Infine a completare il quadro c’era il nome di battesimo del figlio che si chiamava, fate bene attenzione, Nabucodonosor.

     Quando il giovane Rossini arrivò a Sovrana, e quello strano nome venne conosciuto, la gente del posto, che per la maggior parte non aveva la minima idea di chi fosse stato Nabucodonosor, trasformò quel nome, eccentrico e difficile da pronunciare, nel soprannome Don Bucononsò.

     Un buontempone lo inventò, lo disse una sera scherzando con gli amici all’ ‘Osteria con cucina’, e la diffusione fu rapida. Per restare nel campo musicale, più esattamente operistico, mi viene facile paragonare il diffondersi della fama di quel soprannome a una nota aria del Barbiere di Siviglia, come risulta da questo estratto:

‘La calunnia è un venticello … / … va scorrendo, va ronzando; / … Prende forza a poco a poco … / Alla fin trabocca e scoppia, / si propaga, si raddoppia / e produce un’esplosione / come un colpo di cannone …”

     Togliete ‘La calunnia’ e metteteci ‘Il soprannome’ e il gioco è fatto.

     Dunque, qualche giorno dopo quel burlesco battesimo, l’eco della cannonata ‘Don Bucononsò’ arrivò fino a Civita Romana ed entrò pure negli uffici comunali provocando le risatine e i commenti ironici degli impiegati. Quel giorno il segretario Rossini era impegnato a confabulare con il geometra responsabile dell’ufficio tecnico del comune. Stavano elaborando un trucchetto per aggirare certi divieti imposti dal piano regolatore alla ristrutturazione di un antico palazzo, del quale era proprietaria la signora Assunta Millesi vedova Cavalli, cioè la madre del sindaco. I due vennero interrotti da un usciere pettegolo che si affrettò a riferire il comportamento sconveniente degli impiegati.

     Il segretario ascoltò la delazione restando impassibile e silenzioso. E che poteva dire o fare? Nei paesi, a quel tempo, dare soprannomi ai nuovi arrivati era un’opera della creatività maliziosa del popolo. Chi veniva ribattezzato in modo originale, fantasioso e talvolta anche satirico, se ne dispiaceva, ma abbozzava, e se era spiritoso ci rideva su. Lamentarsi, ribellarsi non sarebbe servito ad altro che ad aumentare lo scorno.

*     *     *

     I giovani dei piccoli paesi sono generalmente espansivi con i forestieri, specialmente se coetanei, e si dimostrano con loro cordiali e disponibili. Così era anche a Sovrana dove i coetanei di Nabucodonosor gli offrirono la loro amicizia.

     Naturalmente nessuno, rivolgendosi al giovane Rossini, lo chiamava con il soprannome, ma nemmeno con il nome che sembrava altrettanto ridicolo e anche più difficile da pronunciare. Gli dicevano: “Ehi, tu…” oppure “Senti ‘n po’…”

     Quando erano proprio costretti ad usare il nome lo chiamavano sbrigativamente Nabù, ma lui non gradiva e precisava che desiderava essere chiamato Rino (abbreviazione di Nabucodonosorino). Dato che i nuovi amici non si adattavano a questo diminutivo e continuavano con Nabù, cominciò a prendere le distanze da loro, l’amicizia si raffreddò rapidamente e divenne presto antipatia.

     Invece a Civita Romana una persona si dimostrò particolarmente rispettosa, gentile e cordiale con Nabucodonosor, anzi con Rino (così lo chiamerò d’ora in poi secondo l’espresso desiderio del nominato), e questa persona fu il parroco don Gabriele Millesi. Era costui un altro andreottiano tipico, ancor più del sindaco, e infatti si vantava di dare del tu al potente onorevole Giulio Andreotti, allora ministro della difesa.

     Don Gabriele Millesi, parroco nonché cugino del sindaco, era soprannominato don Mille-sì per la tendenza a dire sempre ‘sì’ a qualsiasi richiesta. Era un ottimo sacerdote, sempre pronto a regalare un sorriso, un santino e una benedizione. Ma era anche un buon politico, disposto a concedere ogni tipo di favore, sempre nei limiti della decenza, s’intenda bene! e quindi nel suo vocabolario il ‘No’ era inesistente e perciò, se era richiesto di un qualcosa che non poteva proprio concedere, diceva ‘Forse’, prendeva tempo, non faceva nulla e poi si giustificava così: “Vedi, figliuolo? Il buon Dio non ha voluto, ma vedrai che la Divina Provvidenza farà sì che il male di oggi sia un bene per te, domani.”

     Dunque don Gabriele, buon sacerdote e buon politico, conobbe Rino, lo trattò con rispettosa gentilezza e ne fu ricambiato. Come buon politico si acquistò la benevolenza del segretario comunale e come buon sacerdote ottenne la disponibilità del giovane a cantare durante la messa solenne della domenica.

     Rino era infatti già un tenore dall’espressività musicale chiara e potente, così che quando, al momento della Santa Comunione, cantava l’Ave Maria di Schubert, la sua voce si levava pura e angelica e tutti i fedeli si commuovevano e avevano le lacrime agli occhi. Ad essere ipercritici si sarebbe potuto dire che la voce era ancora leggermente grezza, appena un po’ stridula nelle note alte, però erano difetti avvertibili solo dai melomani più raffinati. Ma i civitesi non avevano una tale finezza e andavano alla messa a sentir cantare Rino con lo stesso entusiasmo con cui sarebbero andati ad un concerto di Luciano Pavarotti, che proprio in quel periodo stava diventando una stella della lirica.

     La messa domenicale delle 11 nel duomo di Civita Romana divenne famosa e frequentata anche da gente che, per sentire quel promettente tenore, veniva dai paesi vicini, andava in estasi per l’Ave Maria di Schubert, ed era quindi generosa al momento della questua.

     Don Gabriele si complimentava con se stesso per il successo (le cospicue offerte) e per la buona fama che si stava procurando e che intendeva sfruttare alle prossime elezioni in favore dell’amico onorevole.

 Agostino G. Pasquali

(Continua e finisce domani)