Viterbo RACCONTO  Ettore era dunque un classico giovane del genere ‘Vitelloni’, cioè uno di quegli scansafatiche e scansaresponsabilità
di Agostino G. Pasquali
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I Vitelloni con Alberto Sordi... scansafatiche

Il dottor Ettore Nettas è un signore di mezz’età, classe 1960. Ha l’aspetto di una persona seria e affidabile, veste sempre abiti scuri (stile ‘simil-manager’), si pettina accuratamente col riporto i pochi capelli rimasti, esibisce una barbetta autoritaria (stile ‘Matteo Salvini’ oggi); la sua statura è un po’ inferiore alla media (ma se la aumenta con i tacchi alla Berlusconi) e il suo aspetto fisico è pasciutello, da amante della poltrona e del buon cibo.

     Lavora attualmente in una azienda di ‘Import of China’, dove svolge con diligenza l’incarico di curatore dell’immagine e di responsabile delle relazioni esterne. La sua dote migliore è la capacità di scrivere molto bene: lettere d’ufficio, verbali, relazioni e comunicati stampa… quegli scritti insomma  in cui è necessario mettere molte parole ricercate ed eleganti per mascherare la pochezza della sostanza. Questa abilità si sviluppò in lui da giovane, ma, per capire come, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente all’anno 1982.

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     Nel 1982 Ettore Nettas era uno studente del quarto anno di giurisprudenza.

     Ettore, d’ora in poi lo chiamerò semplicemente così perché ormai lo conosciamo, si qualificava studente perché era iscritto all’università e pagava regolarmente le tasse, ma in realtà studiava poco, dava un esame all’anno scegliendolo tra quelli più facili e accontentandosi di un voto minimo, e si avviava così ad essere un fuori corso senza scadenza. L’iscrizione all’università gli era comunque utile per:

     a) darsi l’aria da intellettuale,

     b) rinviare per qualche anno il servizio militare, che gli sembrava un obbligo ingiusto e insopportabile,

     c) evitare definitivamente il servizio militare, sperando in una eventuale nuova legge che ne abolisse l’obbligo, legge della quale si parlava già, ma contando anche e di più in qualche scappatoia, cioè in un prodigioso esonero gentilmente procurato da un santo protettore politico, il senatore Filandri amico di famiglia.

     Ettore era dunque un classico giovane del genere ‘Vitelloni’, cioè uno di quegli scansafatiche e scansaresponsabilità così ben descritti da Federico Fellini nell’omonimo film del 1953.

     Non è però esatto dire che Ettore fosse un perfetto fannullone neghittoso perché aveva un desiderio, anzi un’ambizione: diventare un famoso scrittore. E scriveva, scriveva…

     Durante gli anni della scuola media e poi del liceo classico aveva di volta in volta sognato di divenire un Giovanni Pascoli, un Gabriele D’Annunzio, un Dante Alighieri, ma alla fine si era adattato ‘riduttivamente’ ad essere un Luigi Pirandello o un Giovanni Verga e, più di recente, si accontentava di avere l’abilità e il successo di Umberto Eco. ‘Riduttivamente’ va inteso nel senso che aveva deciso di limitarsi alla prosa, perché si era accorto, nei suoi tentativi di creare la ‘grande opera’che lo avrebbe reso famoso e ricco, che era più facile raccontare in prosa piuttosto che scrivere in poesia. Infatti la metrica gli creava difficoltà insormontabili e, d’altra parte, rifiutava la poesia contemporanea ermetica, informale, che a lui sembrava assurda e incomprensibile, indegna di un serio studioso della classicità.

     Ma proprio in quell’anno 1982 gli capitò di leggere alcuni scritti di Indro Montanelli e ne restò incantato, direi folgorato. Ammirò il Montanelli commediografo, lo storico, ma soprattutto il giornalista, e, leggendo il romanzo ‘Il generale della Rovere’, ammirò anche il Montanelli narratore. D’impulso prese la decisione della vita: sarebbe divenuto giornalista e romanziere.

 

     Con la raccomandazione del senatore Filandri, che come ho già detto era amico di famiglia, riuscì ad entrare da giornalista praticante nel quotidiano locale ‘L’eco della città’, dove gli fu assegnato un tavolo in condominio con un altro praticante cosicché, quando in redazione c’erano tutti e due, dovevano lavorare contrapposti. Ettore piazzò sulla sua parte del tavolo una ‘Olivetti lettera 22’ (come quella che usava Montanelli) e una foto del suo idolo, appunto Indro Montanelli. Bastò questo perché venisse soprannominato ‘Cilindretto’, sia per il fisico che aveva alquanto rotondo già da giovane, sia per riferimento a Indro (Montanelli) che nell’ambiente giornalistico era soprannominato ‘Cil-indro’.

     Una mattina Ettore venne chiamato dal direttore per un incarico.

     Il direttore era un ‘romano de Roma’, informale e irriverente oltre i limiti della decenza, e così smaliziato come solo i romani autentici sanno essere; quindi comandò sbrigativamente in dialetto:

“Cilindré, me devi da fà ‘n’intervista a ‘n tizio, Aristide Filighieno, mago,  chiaroveggente, eccieteraccietera. Me l’ha riccommannato l’amico tuo senatore, ma nun te fa ‘ncantà, tanto sto tizio è ‘n imbrojone come tutti li maghi. Già sto nome Fili-ghi-eno… me puzza de grecantico… ma  che cazzo vorrà ddì? Però je dovemo da fà un po’ de pubblicità pé riguardo al senatore. Tiè, pijete er bijetto der mago…”

     Ettore lesse attentamente il biglietto su cui era scritto:

Cav. Dott. Aristide Filighieno  -  Chiaroveggente

Gran Maestro di olismo fisico e metafisico

Cura tutti i disturbi del corpo e della mente

Riceve per appuntamento presso l’Albergo Principe

     Ettore, facendo sfoggio della sua erudizione classica, spiegò subito che il nome ‘Filighieno’ veniva effettivamente dal greco antico e significava ‘amico della buona salute’, e con questa spiegazione salì parecchio nella stima del direttore, il quale esclamò: “Cazzo!”, vocabolo molto espressivo che insieme a “Porca puttana!” era il suo intercalare preferito.

     (E’per me doveroso chiarire il motivo per cui ho riportato in chiaro il turpiloquio del direttore. In prima stesura avevo scritto:  “ca..o” e “pu…na”. Però quei puntini mi sono sembrati inespressivi e artificiosi, soprattutto fuorvianti per l’esatta percezione semantica di quell’oratoria primitiva ma efficace. Con questa precisazione coscienziosa cerco di giustificare e compensare la volgarità delle parole, anche di quelle che riporterò più avanti, della quale volgarità un po’mi vergogno e chiedo scusa. Però direbbe quel direttore: “quanno ce vò, ce vò!”)

     Ettore prese telefonicamente un appuntamento per le ore dodici con il Cav. Dott. Aristide Filighieno e, poiché mancava più di un’ora, passò una mezz’oretta nella biblioteca comunale a consultare un’enciclopedia alle voci: Chiaroveggenza, Magia, Olismo; era interessato soprattutto ad ‘Olismo’, vocabolo che non aveva mai sentito nominare prima. Sapeva infatti che un buon giornalista deve essere ben documentato sulla materia specifica quando va ad intervistare un maestro di quella materia. Con sua sorpresa nell’enciclopedia non trovò nulla per ‘olismo’. Trovò però un trattato filosofico che ne parlava con termini così complicati che, nonostante la sua erudizione linguistica e filosofica, non riuscì a capire granché e finì per perdersi nei meandri di una tesi sull’impostazione olistica dell’epistemologia. Uscì dalla biblioteca un po’ depresso, scoraggiato  e con un discreto mal di testa.

     Era la sua prima intervista, aveva un po’ di apprensione, anzi molta, ma sentiva di non dover deludere il direttore. Fece un bel respiro e disse a se stesso:

     “E ora? Andiamo nell’antro del mago…”

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Agostino G. Pasquali