Viterbo RACCONTO Di solito la prima rimpatriata si fa intorno ai quarant'anni

     “Telefonooo!... Amó, rispondi al telefono?”

     Mario Nattelli, se ne sta beatamente sprofondato in poltrona davanti alla TV, è quasi in abbiocco, ma lo disturba il telefono che è già al sesto squillo, e perciò rivolge quelle parole alla moglie che sta lavando le stoviglie del pasto serale terminato da poco.

     “Perché non rispondi tu?” replica la moglie, ma sa che ora Mario fingerà di non sentire.
     La divisione consensuale del lavoro prevede che Mario aiuti a cucinare e prepari la tavola, la moglie sparecchi e riordini. E gli adempimenti extra? come per esempio rispondere al telefono? Dipende dalle circostanze, cioè dalla buona volontà, che però latita sempre in Mario quando sta in poltrona. Quindi lei si asciuga le mani e va nell'atrio a rispondere, brontolando, ma rassegnata. Dopo pochi secondi torna con il cordless e lo porge a Mario: “E' per te.”

     E' Amedeo Amedei, che fu suo compagno di banco alle medie superori. Mario non lo vede da decenni. Amedeo telefona per avvisare che ha organizzato una “rimpatriata con conviviale” dei diplomati dell'anno 1965, per celebrare appunto il 50° anniversario del diploma. Mario è invitato e non può mancare: “Niente scuse e stàmpati l'invito che t'ho mandato per e.mail.”
    

Mario dà un assenso provvisorio 'salvo imprevisti', ringrazia e saluta. Non è entusiasta della rimpatriata, ma come si fa a dire di no ad un compagno di banco, con il quale si è condivisa un parte importante degli anni giovanili?

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     Per le persone come Mario Nattelli, cioè per coloro che sono socievoli come gli orsi marsicani, le “rimpatriate” sono cerimonie poco gradite, ma difficilmente evitabili, che capitano nella vita due o tre volte come le malattie esantematiche, e proprio come queste producono però una buona immunità, nel senso che dopo un paio di rimpatriate si genera necessariamente una scusa diplomatica efficace per non partecipare più.

     Di solito la prima rimpatriata si fa intorno ai quarant'anni, quando a qualcuno viene in mente di radunare i vecchi (si può dire “vecchi” per dei quarantenni?) compagni delle scuole elementari. Dopo qualche anno è la volta dei compagni di scuola media. Infine c'è il raduno dei vecchi colleghi di lavoro (in questo caso il termine “vecchi” è proprio giustificato).

     L'adesione alla rimpatriata non è mai totale: alcuni (quelli vaccinati) hanno pronta la scusa diplomatica per non  partecipare, altri non sono rintracciabili a causa della dispersione prodotta dalle vicende della vita: c'è chi si è trasferito non si sa dove e non si rintraccia nemmeno con Facebook, e c'è chi se ne è andato all'al di là (notare l'elegante eufemismo).

     Chi prende l'iniziativa è di solito un eccellente organizzatore sociale,  cioè una di quelle persone animate da una inesauribile carica di socialità per cui non sanno starsene tranquille per i fatti loro, il contrario degli orsi marsicani tipo Mario Nattelli.

     Superate le difficoltà organizzative ci si ritrova in un ristorante (cosa ci può essere di meglio di un incontro conviviale?), ci si guarda in faccia e ci si riconosce tutti subito… se non sono passati troppi anni. Se di anni ne son passati alcune decine, il riconoscimento può essere un po' incerto, comunque, dopo un primo momento di imbarazzo, scattano le 'frasi di circostanza'. Ne riporto alcune tipiche che non corrispondono affatto al pensiero, ma tra parentesi ho indicato il pensiero sottinteso:
- Come ti trovo bene! Sei giovanile come ai tempi della scuola. (= Acc… sei diventato un rudere!)
- Non sei cambiato per niente! (= Sei irriconoscibile!)
- Stai benissimo! (= Mamma mia, fai schifo!)

     Ho scritto al maschile, ma quello che ho detto vale anche al femminile. Anzi per le donne aggiungerei:
- Sei bellissima! (= Eri già indecente e gli anni non ti hanno migliorata!)
- Come sei elegante! (= Ti ricordavo sciatta, ma ora sei pure peggio!)
… e così via. Penso che come esemplificazione possa bastare.

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     Quanto ho appena detto serve a capire lo stato d'animo di Mario Nattelli, che non è proprio euforico mentre entra nel ristorante “Magnabene”, nome che è tutto un programma di scorpacciata e allegria. Ambiente finto rustico, anzi finto rustico con pretesa di raffinato, luci soffuse, leggero odore di carne alla brace. “Poteva essere peggio…” pensa Mario che è sempre un po' diffidente.

     Ad una tavola lunga, preparata per dodici persone, ci sono cinque uomini e due donne. Uno degli uomini, che è Amedeo  l'organizzatore della rimpatriata, si sbraccia per attirare l'attenzione di Mario, che se ne accorge e si avvicina con un sorriso esagerato, ma doveroso. Amedeo ordina:
     “Siediti qui, di fronte a me e accanto alla Giustini. Ti ricordi la Giustini? quella che scriveva poesie?”

     Saluti e abbracci, complimenti e pacche sulle spalle, ricordi e motteggi, secondo il cerimoniale di circostanza, cerimoniale che non è scritto in nessun testo specifico, ma è correttamente eseguito sotto la regia dell'organizzatore.
     
     Entro pochi minuti arrivano altri due uomini e due donne e così la tavola è completa.
     Amedeo prende la parola per il discorsetto di apertura mescolando ricordi, sentimentalismo e vecchie battute comiche. Cioè lui crede che siano comiche, e forse lo erano quando furono dette la prima volta dai grandi attori del passato (Totò, Rascel e addirittura Petrolini). Comunque i presenti ci ridono e applaudono apparentemente divertiti.

     L'aperitivo, il cibo buono e il vino riscaldano l'atmosfera e sciolgono definitivamente quel po' di imbarazzo che c'è sempre tra persone che si sono conosciute a scuola e poi non si sono più viste per tanti anni.
     Arriva il momento dei discorsi. Dopo l'apertura di Amedeo è ora il turno di Aldina Giustini (quella che scriveva poesie), che si alza, chiede il silenzio e annuncia che declamerà un suo carme celebrativo in quaranta versi, dieci quartine con rima baciata , composto per l'occasione.

     In realtà Aldina si chiama Alda, come la poetessa Merini, alla quale ambisce di somigliare non solo nel nome, ma soprattutto nell'arte. Però lei, con sfacciata falsa modestia, ritiene opportuno usare il diminutivo 'Aldina' perché non si sente ancora proprio al livello della grandissima Alda Merini. Comincia dunque a recitare:
                                    In questo dì di festa
                                    Con il cuore e con la testa
                                    Festeggiamo compiaciuti
                                    Di esserci arrivati.

     Niente paura! Non riferirò gli altri trentasei versi, altrettanto… ehm… eleganti nella forma e altrettanto significativi nel contenuto poetico. Ma i commensali se li devono ascoltare tutti e alla fine devono pure applaudire, sia pure con un calore così scarso che l'Aldina Giustini ci resta male e pensa che purtroppo la sensibilità poetica è oggi assai scarsa e che a nulla sono servite la scuola, la lettura e lo studio dei classici. E pensare che lei è stata sveglia fino alle quattro del mattino  per comporre quell'opera!

     Riflessione conclusiva di Aldina: “Negata semper fuit gloria poetibus!”, dotta riflessione sussurrata a Mario Nattelli che le siede accanto e inorridisce, ma non lo fa vedere.
     Non starò a riportare i discorsi tra vicini di posto, discorsi di banale informazione reciproca (Che fai? Hai famiglia? Dove vivi? Ci dobbiamo rivedere una volta o l'altra…), né descriverò gli sproloqui che i due o tre più disinibiti fanno a turno alzandosi in piedi e richiedendo l'attenzione di tutti. Costoro, a fine cena, tendono a fare i buffoni, un po' perché sono così di natura e un po' perché il vino fa il suo effetto. Ricordano quindi gli anni passati tra i banchi di scuola, rievocano gli scherzi reciproci e quelli fatti ai danni degli insegnanti. Ridere degli insegnanti è sempre di moda, ed è pure una rivalsa a scoppio ritardato, ma gratificante.

      Ma che fine hanno fatto gli insegnanti? Quelli che erano già anziani ai tempi della scuola ovviamente non ci sono più. Ma il professore di lettere? come si chiamava? Ah! Volpani. Quello era giovane, aveva poco più di trent'anni, dunque dovrebbe essere poco sopra gli ottanta. Era un buon professore, Volpani, moderno e amichevole, autorevole ma non autoritario. Tutti lo ricordano con simpatia. Qualcuno ne sa qualcosa?

      Mario Nattelli, che finora si è mantenuto piuttosto riservato, fa un cenno, alza la mano proprio come faceva a scuola, e gli altri undici si impongono il silenzio l'uno con l'altro.
      “Si, io l'ho incontrato di recente, circa due mesi fa. Stava seduto su una panchina nel giardino pubblico. Vicino a lui una signora. Sì, mi sembrava il professor Volpani, ma non ero sicuro che fosse lui. Allora mi sono avvicinato e l'ho salutato: “Buongiorno professore” ho detto, ma lui non mi ha risposto, anzi non mi ha neppure guardato, non ha alzato la testa che teneva abbassata. La signora invece mi ha chiesto: “Lo conosce? E' il professor Umberto Volpani, mio marito. Ma lui non può risponderle perché… non conosce più nessuno… nemmeno me… ha  il morbo di Alzheimer alla fase finale… è sempre così come lo vede adesso… del tutto assente.”

     Il racconto viene interrotto bruscamente da Amedeo:
     “Ah, Mario? Va 'bbè che sei stato tutta la sera piuttosto serioso, ma ora ci vuoi intristire tutti?”
     “Ma l'avete chiesto voi se qualcuno sapeva qualche cosa di Volpani…”
     “Sì, ma non per sentire cose tristi! Ma perché hai da fà sempre il 'Pierino' come facevi a scuola? Alzi la mano perché sai la risposta… E statti zitto no?”

     Nasce un discussione tra chi vuole sentire altre notizie e chi invece la pensa come Amedeo. Alla fine prevale la richiesta di sentire la fine del racconto di Mario.

     “Dunque dico alla signora Volpani: “Sono stato allievo di suo marito. Mi chiamo Mario Nattelli.”  
     Al suono di quel nome il professore alza la testa, spalanca gli occhi che teneva socchiusi e si sforza di parlare. Poi articolando a fatica le parole mi dice: “Nattelli? Nattelli Mario? Quinta B, anno 1965. Bravo ragazzo. Erano tutti bravi quell'anno. Lei lo conosce Nattelli Mario?”
     Rispondo: “Sono io, Nattelli, Mario Nattelli…”  

     “Nattelli… quello che scriveva temi lunghi, pieni di fantasia. Sarà diventato un insegnante, magari uno scrittore. Chissà?”
     “No, mi dispiace, ma Nattelli, cioè io, non è diventato né insegnante né scrittore. Ha fatto l'impiegato per quarant'anni e ora è in pensione.”

     “Peccato! Sarebbe stato un buon insegnante… e Amedei? e Rossi? e Giustini? e tutti gli altri? Ottima classe quella del diploma del 1965. Tutti bravi, studiosi… Fu uno degli ultimi anni buoni. Poi venne il 1968. Che è successo nel 1968? E' successo qualche cosa di brutto, ma non me lo ricordo…”

     Mario smette di raccontare, ma i compagni insistono per sapere, gli chiedono:
     “E poi?...”  “Dove abita? Vorrei andare a trovarlo.”  “Anch'io.” “Anch'io.” “Andiamoci tutti insieme.” “Ma… e poi?”
     “… e poi quel giorno l'ho accompagnato a casa. Era un miracolo. La moglie non finiva di ringraziarmi. Diceva che il mio incontro aveva risvegliato il professore dalla morte intellettuale. Il giorno dopo… il giorno dopo… sono andato… ma voi volete andare a trovarlo?…”  

     Mario non riesce a continuare il racconto, ha un groppo alla gola, fa una pausa, poi riprende con la voce rauca per la commozione: “…ma voi non potete più andare a trovarlo perché il giorno dopo è… morto. Il suo ritorno alla coscienza è stato come l'ultimo guizzo di luce di una candela che arde  per l'ultima volta e poi si spegne per sempre.”
     Tutti tacciono, qualcuno si asciuga una lacrima.

      La riunione conviviale finisce così, con un po' di tristezza, ma senza amarezza. Una dolce tristezza li accomuna e gli fa ricordare come erano giovani il giorno dell'esame, nell'alba della vita adulta. Un ultimo brindisi commosso in onore e ricordo del professore Volpani e poi via, ognuno torna alla vita di tutti i giorni.

     Mario sta avviando il motore dell'auto per partire. Gli si accosta un Amedeo insolitamente serio e confidenziale:
     “Non mi sono sentito mai così commosso. Bravo Mario! Hai trasformato una banale serata in un episodio da ricordare. Grazie. Ma … è proprio tutto vero quello che hai raccontato?”

Agostino G. Pasquali