Viterbo CRONACA Mauro Galeotti: Rosa è vicino al cibo con il miracolo del pane, la gallina rubata, l'acqua nella brocca rotta, il fuoco con l'eretica e il chicco di uva nello stomaco...

Enrico Mazzetti, Antonio Delli Iaconi, Leonardo Michelini, Stefano Polacchi

Pensare oggi a un Menu del Rito legato alla vita e alla temperie spirituale della Viterbo di Santa Rosa significa fare un salto in un passato difficile, se non impossibile, da ricostruire nel piatto: non solo per la difficoltà di reperire ingredienti e perché nella vita quotidiana attuale sono entrati con forza prodotti allora inesistenti, ma anche perché nell’epoca in cui visse e operò Rosa il popolo (cui la ragazza apparteneva) era costretto a sopportare enormi carenze nutrizionali provocate dalla scarsità di cibo per chi non fosse appartenente al clero o alle classi più alte.

Vero è che la piccola Santa viterbese aveva frequentazioni – più o meno contrastate – con gli ordini monastici e religiosi del suo tempo e della sua città, per cui probabilmente – almeno nelle festività canoniche – la sua vicinanza a piatti più costruiti può quanto meno essere presunta.

Un Menu del Rito si lega a diverse possibili chiavi di lettura. •

Le tavole del Rito. Per quanto riguarda l’alimentazione, riti per eccellenza sono la quaresima, la tradizione della vigilia, il cibo dei conventi in senso ampio e le diverse pratiche di digiuno; un menu legato all’esercizio spirituale, che per avvicinare la contemplazione del cielo avvicina i piatti alla terra: radici ed erbe spontanee, grano, piccoli prodotti dell’orto; poca, pochissima carne, qualche pesce (di lago) qualche crosta di baccalà. Castagne e nocciole (selvatiche spesso, ma anche “addomesticate”) sono i frutti che si trovano lungo strade e sentieri, nei boschi intorno ai laghi e ai monti Cimini.

Una santa in movimento. Un Menu del Rito dedicato alla vicenda umana e spirituale di Santa Rosa, si lega necessariamente all’idea del cammino, del viaggio, dell’esilio:
Rosa viene cacciata da Viterbo, si rifugia a Soriano nel Cimino e a Vitorchiano. Ma l’eroina del popolo viterbese è in continuo spostamento anche all’interno della sua città, della cui religiosità è parte fondante: la ragazza si sposta continuamente, e anche simbolicamente, tra il convento delle suore del centro storico e le case popolari e le famiglie tra la Crocetta, il Palazzo dell’Imperatore (distrutto, ora appena visibile nel tratto di mura di fronte al Palazzo dell’Economia) e la chiesa di San Francesco.

Questo è il suo percorso terreno. Che si allaccia anche a un percorso ideale, spirituale, metafisico e religioso della memoria della Santa: una storia che ha percorso i secoli fino a oggi, attraverso miracoli e attraverso il complicato e particolare percorso che la portano alla santità. Un percorso che giunge fino a oggi, attraversando ogni 3 settembre le vie del centro storico dall’alto della “Macchina” a lei dedicata, una devozione profonda di tutta la città che ha portato al riconoscimento della tradizione come patrimonio immateriale dell’Umanità.

Un percorso che quest’anno ha portato la “Macchina” anche da Viterbo a Milano dove troneggia al centro di Expo 2015. La storia di Rosa è quella di una ragazza, una donna, che riesce a galvanizzare con la sua presenza nel corso dei secoli politici e cittadini, papi e religiosi. Una ragazzetta molto credente che sa – dice la vulgata – tenere testa all’imperatore e che allo stesso tempo imbarazza le autorità religiose del tempo. Una storia, dunque, che tiene insieme la forza morale di una donna e la sua capacità di valicare i secoli attraverso il riconoscimento in essa di un’intera popolazione.

Il cibo dei pellegrini. Il pellegrinaggio parla di pasti frugali a base di ingredienti rimediati; la vicinanza ai monasteri ci fa pensare a riti conviviali più complessi, per quanto comunque non certo paragonabili e quelli dei signori; l’attraversare dei secoli, invece, lega quell’irraggiungibile alto medioevo alle nostre sensibilità attuali; i gusti di allora con i palati e le abitudini di oggi.

Essere donna. L’essere donna è sicuramente uno degli elementi che hanno fatto di Rosa ai suoi tempi un’eroina e poi una santa acclamata quasi a furor di popolo; l’esser donna ha con più forza trasportato il mito della ragazzina coraggiosa e assolutamente presa da una vivida tensione mistica verso di noi. Tanto che da secoli e secoli, da poco dopo la sua santificazione, a Santa Rosa Viterbo dedica devozione e tributa una “Macchina” alla cui progettazione, realizzazione e trasporto partecipa tutta la città. Donna, mistica, religiosa, popolana, forte, esiliata… Ecco, al femminile, gli attributi di un Menu del Rito a Rosa dedicato. Una serie di preparazioni che partono dai campi e si fermano negli orti, che lambiscono boschi, prati e torrenti e si avvicinano ai conventi.

La tradizione e il territorio. Un menu che parla la stessa lingua della tradizione culinaria della Tuscia, del territorio del Patrimonio di Pietro: una cultura legata alla terra, una tradizione povera che sa tirare fuori da quanto si trova per strada, nei campi e nei boschi il meglio del sapore e della capacità nutritiva. Verdure, erbe di campo selvatiche, frutti selvatici, qualche volta animali di bassa corte, altre volte, le più fortunate, un pesce di lago o gli insaporitori per eccellenza: un’alice o una sarda salata o un tocco di baccalà.

La ricerca. Degli ingredienti tradizionali, parla anche uno – l’unico – storico della cucina viterbese e della Tuscia: Italo Arieti. I suoi testi, le sue ricette, non ricostruiscono percorsi filologici dei piatti, anche se intrecciando documenti storici, ricette e studi specifici, molto è intuibile di quel legame che unisce un ideale Menu del Rito della Santa alle abitudini familiari degli ultimi due-tre secoli.

Il linguaggio è sempre lo stesso: poca cacciagione (a volte recuperata di frodo e a rischio della vita), poca pesca, molta ricerca nei boschi e qualche frutto coltivato nell’orto, insieme a qualche gallina (che serviva più per le uova che per la carne) e a qualche coniglio. È il linguaggio di una cucina estrema che riesce a rendere gentili anche i prodotti più aspri della natura. Certo, non c’era il pomodoro. C’era però la canapa, citata anche da Dante a proposito del Bullicame (vedi schede) : e la ritroviamo oggi di nuovo.

Non c’erano trafile in bronzo, ma la pasta si faceva in casa, a mano, con o senza uovo e magari utilizzando gli scarti dell’impasto del pane. Le spezie – quando c’erano – erano un dono della Fortuna, da usare con estrema parsimonia e nelle occasioni più importanti: erano appannaggio dei signori, ostentazione di ricchezza legata alla carne e alla cacciagione importante.

STRUTTURA E FILOSOFIA DI UN PERCORSO
scelte e motodo

La preoccupazione di partenza nel concepire un Menu del Rito che possa essere patrimonio di tutti, è stata quella di pensare al progetto in modo inclusivo. Ovvero: analizzare la struttura produttiva ed economica del Viterbese, cercando di coinvolgere le realtà presenti sul territorio e in particolare nelle terre più legate a Rosa. Questo interpretando come “inclusiva” la stessa figura della giovinetta viterbese del 1200 e la tradizione a lei legata: una eroina popolare che sapeva coinvolgere i suoi concittadini, prendersi cura dei problemi cittadini, dialogare con i suoi vicini… fino alla sua ultima “inclusione” all’interno del monastero (dove ora è la Casa di Santa Rosa) che in vita l’aveva sempre rifiutata.


In questo senso, quindi, si è cercato di proporre piatti “condivisi”: quelli ricostruiti da Italo Arieti nel corso della sua vita ricercando le tradizioni familiari e cittadine della Tuscia e cercando di dar loro una vicinanza con quella che poteva essere la cucina ai tempi di Rosa. E di legare questi piatti ai ristoratori che attualmente sono i protagonisti della cucina viterbese, oltre ad essere quelli tra i più vicini al percorso attuale della Macchina di Santa Rosa che attraversa la città trasportata dagli oltre 100 Facchini, espressione vivente e appassionata della devozione popolare.

La scelta dei prodotti da utilizzare: abbiamo evitato – per motivi ovvi di periodo storico – quantomeno patate e pomodoro. Ma non abbiamo voluto fare una selezione ideologica: abbiamo cercato di includere nei piatti le realtà più importanti della produzione gastroalimentare del Viterbese di oggi, richiamando certamente, per quanto possibile, la cultura di un periodo ancora abbastanza scuro da definire con nettezza specialmente nelle campagne e nelle piccole case popolari di una terra legata strettamente alla terra e ai laghi: anche i pescatori sono contadini… di acqua.

Nocciole e castagne, a metà del 1200, erano probabilmente in forma di frutta selvatica: oggi sono tra le realtà economiche più importanti della nostra agricoltura. Le carote erano viola: erano queste le famose “carote nere di Viterbo” di cui parlano diversi testi antichi.

Si trattava di carote derivanti da specie selvatiche che ancora oggi si trovano nei campi ma sovrastate dalle cultivar più moderne, gestibili e redditizie. Eppure, nell’ipotetico percorso che lega la vita della santa all’attuale devozione che ancora unisce – dopo 800 anni – la città di Viterbo alla sua eroina, si può anche immaginare una sorta di “ritorno sui propri passi”, il recupero cioè di un ortaggio scomparso che oggi si trova in vendita quasi esclusivamente sui mercati stranieri. Abbiamo voluto fare una piccola provocazione, cercando di ripetere la famosa tradizione viterbese della carote viola in confettura (per cui andava famoso il Gran Caffè Schenardi che le vendeva in grandi contenitori di ceramica) di cui non c’è più traccia. Nello spirito di Expo.

L’idea di proporre e affidare al patrimonio collettivo della città di Viterbo un Menu del Rito, dedicato alla memoria di Rosa, santa popolare, è un impegno importante. In primis perché non esistono piatti, menu, usanze culinarie e gastronomiche relative alla santa e alla tradizione a lei legata. Ci sono nelle case del popolo i quaresimali, i dolci, i biscotti e i pani dedicati a santi legati ai campanili dei diversi comuni della provincia, al vescovo o ai morti… Ma al nome di Rosa si ispirano solo alcune moderne realizzazioni di pasticceria e panetteria realizzate negli ultimissimi anni e non risalenti ad alcuna tradizione popolare o familiare… ma di questo parleremo poi.

2015, la biodiversità è un valore: vogliamo stimolare il tessuto produttivo viterbese a farsene carico, a provare di nuovo a produrre un ortaggio tradizionale, antico… un po’ come è stato fatto per la antica Lenticchia di Onano, quella blasonata e premiata ai tempi Stato Pontificio e che solo recentemente è stata recuperata.

I secoli di mezzo – quelli intercorsi dalla vita di Rosa fino al riconoscimento da parte dell’Unesco del 2013 – obbligano riflettere su come possa essere attuale una storia antica e al tempo stesso ancora molto vitale e vissuta con passione. Uno degli elementi di trasversalità temporale e geografica nello scambio culturale tra popoli è proprio sul piano alimentare: diversi elementi oggi quotidiani, allora non c’erano ma erano altrove e sono arrivati a noi oggi seguendo le rotte della Storia. Alcuni di questi prodotti abbiamo voluto escluderli.

Altri però – come il peperoncino che ha una sua storia molto più democratica e trasversale rispetto al pepe che già esisteva ai tempi dell’Impero Romano – abbiamo voluto includerli: ciò anche per tessere un rapporto ideale con popoli e culture lontani e anch’essi – come la Macchina di Santa Rosa – eletti a patrimonio immateriale dell’umanità: Dieta Mediterranea e Cucina Tradizionale Giapponese (2013), Alta Cucina Francese (2010), Cucina Tradizionale Messicana (2010).

La tradizione di oggi: ci siamo posti il bisogno di recuperarla e di farne una base per le tradizioni future in un’ottica in cui il processo di crescita della nostra popolazione possa partire da lontano e arrivare lontano. Così, pur essendo creazioni molto moderne, abbiamo voluto valorizzare le creazioni di artigiani contemporanei e di grande talento dedicate alla santa.

A stimolare questa moderna tradizione è stata la CNA, con dei concorsi aperti agli artigiani viterbesi che hanno avuto ad oggetto la realizzazione di prodotti da forno e di pasticceria dedicati a santa Rosa: li abbiamo ricercati, vogliamo metterli in evidenza, sono l’unica testimonianza gastronomica esistente realmente legata al nome di Rosa. e allo stesso tempo, proprio per dare corpo al concetto del “percorso”, dell’itinerario, del viaggio nei luoghi e nel tempo, abbiamo proposto a una pasticcera moderna e creativa, appassionata di cake design, di realizzare un dolce contemporaneo che del nome di Rosa mantenesse un’idea, un aroma… come un filo rosso immateriale che lega l’oggi ai tempi di Federico II.

Il vino, nelle famiglie del ’200, era un vero e proprio dono di Dio. Il vino ha un suo enorme significato simbolico legato alla tradizione cristiana, così come anche l’olio di oliva. Difficile proporre oggi una selezione tra le tante e importanti realtà locali. Abbiamo così deciso di utilizzare un metro di giudizio… simbolico, ovvero legato ai simboli: Rosa e Donna. Rosa come colore tradizionalmente dedicato alle donne.

Per questo abbiamo voluto includere aziende dove la figura femminile sia importante e dove si produca un vino rosato: vicino nel colore anche a quelle risciacquature di botte, scariche di colore e (solo allora, però!) tendenti all’acetico, che caratterizzavano i vini destinati a quei tempi al popolo. Oggi il vino ha – anche economicamente – ben altro valore e il rosato ha una sua importante valenza che negli ultimi anni lo ha portato ad essere un vino molto giovane (Santa Rosa aveva 18 anni) e molto legato a un consumo femminile per le sue note più delicate e con meno spigoli, per il suo essere meno preda delle dispute degustative che hanno una cervelloticità e una complessità a volte davvero solo maschili.

Formaggi e salumi erano, ai tempi di Rosa, prerogativa di pochi e rappresentavano una manna dal cielo quando si riusciva ad averne un assaggio. Erano spesso appannaggio dei soli ricchi, dei signori, a volte venivano prodotti nei conventi dove si riusciva ad avere un piccolo allevamento di animali: pecore, capre, polli e conigli, qualche raro e benedetto maiale si cui – come si sa – non si buttava via proprio nulla. Oggi non c’è buffet, pranzo, degustazione che si rispetti che non abbia nei vassoi molte e sofisticate specialità casearie e di salumeria.

Abbiamo voluto rendere omaggio al sogno di una intera epoca (la medievale) in cui avere un po’ di questi bendidio era davvero una festa e, insieme, alla nostra epoca in cui l’industria la fa da padrona e in cui, nonostante ciò, si trovano ancora (o meglio, si ri-trovano) produttori giovani e appassionati “di nuova generazione” che puntano alla riscoperta degli antichi metodi di allevamento, delle vecchie razze autoctone, dei tradizionali modi di produzione artigiana. Abbinando anche qui – e questa è una tradizione del tutto contemporanea – dei piccoli rimandi al senso di Rosa: marmellate di rosa canina (la rosa selvatica) e miele di campo.

Inevitabile differenza di sapori, consistenze e tradizioni è quella legata anche ai metodi di cottura degli alimenti: questo gap è abbastanza impossibile da superare in una cucina che sia almeno un po’ realistica per i nostri tempi. Se non altro, perché qualsiasi cottura prevedeva l’uso del fuoco diretto: i fornelli furono inventati solo nel XVIII secolo e i cuochi dovevano avere la particolare abilità di cuocere appunto sulla viva fiamma. Si usavano anche forni, ma erano molto costosi e se ne trovavano solo nelle dimore più grandi e nelle botteghe dei fornai.

Tanto che spesso le comunità medievali avevano un forno la cui proprietà era condivisa, in modo che il pane, alimento essenziale per tutti, fosse preparato in forma pubblica. Esistevano anche dei forni portatili progettati perché, dopo che il cibo era posto al loro interno, li si seppellisse sotto le braci roventi; e ce n’erano anche più grandi che si spostavano grazie a delle ruote venivano usati per vendere torte e pasticci lungo le strade delle città medievali. Una sorta di “modello catering” e di street food, dunque, in cui il cibo era un bene scarso, ma anche altamente condiviso.

I PIATTI E LE RICETTE

CAROTE ALLA VITERBESE
(Confettura di carote in bagno aromatico)

INGREDIENTI
500 g di carote viola secche
Chiodi di garofano
4-5 kg di zucchero
6-7 litri di aceto di vino
Noce moscata
Cannella in stecche
(facoltativi: pinoli, cioccolato fondente, semi di anice, canditi)


Per preparare questa ricetta nel modo tradizionale, occorrono cinque chilogrammi di carote color viola (cultivar speciale). Dopo averle lavate, si fanno sbollentare per qualche minuto (2-3), quindi si tagliano a fette longitudinali alte circa mezzo centimetro, esponendole poi al sole di agosto per qualche giorno, fino a quando non saranno secche ed accanocciate (si riducono a circa un decimo del peso iniziale). Prendere quindi 500 g di queste carote e metterle a bagno in un recipiente di coccio completamente ripiene con dell'ottimo aceto di vino (circa 5-6 litri), lasciandovele per 3-4 giorni.

Dopo averle scolate, si versa l'aceto in una grossa pentola, unendovi le stecche di cannella, i chiodi di garofano e due noci moscate grattugiate, insieme con 3 kg di zucchero; si fa bollire il tutto per 15 minuti, in modo che il liquido si concentri un poco, quindi si aggiungono le carote, che si lasciano insaporire e cuocere solo in parte, per 4-5 minuti. Il giorno successivo si ripete l'operazione, facendo prima restringere il liquido da solo, dopo avervi aggiunto altro zucchero e altri odori a piacere, e poi unendovi le carote e lasciandole cuocere per 4-5 minuti; e così via fino a raggiungere una densità del liquido simile ad uno sciroppo ed una giusta consistenza delle carote, che non devono risultare troppo molli, ma appena croccanti.

Quasi al termine dei vari passaggi, secondo i gusti e delle tradizioni familiari, era facoltativo aggiungere del cioccolato fondente grattugiato, dell'uva passerina, i pinoli e, a volte, anche pezzetti di frutta candita. Quando le operazioni sono ultimate, si versa il tutto in recipienti di vetro, avendo cura che le carote rimangano sommerse dal liquido di cottura. Se si consumano entro pochi mesi non è necessaria una chiusura ermetica, ma basta semplicemente la copertura del vaso, con un panno, per evitare la caduta degli insetti. Si servono come accompagnamento al bollito.

Questa confettura era una delle specialità che si trovavano in commercio fino ai primi del ’900 nell’Antico Caffè Schenardi.

Gran Caffè Schenardi
Corso d’Italia
Viterbo - 0761 1710294
ww.grancaffeschenardi.it

PESTO ALLA VITERBESE
(con i pizzicotti)

INGREDIENTI
400 g di penne
ruchetta o basilico
nocciole dci Cimini
pecorino romano Dop
aglio rosso di Proceno
sale
olio extravergine d’oliva (Tuscia Dop)


Il Casaletto
Strada Grottana, 9
Grotte S. Stefano (VT) - 0761 367077
www.ilcasaletto.it

In un piccolo tritatutto (o nel mortaio) frullare insieme la rucola (o il basilico), le nocciole dei Cimini leggermente tostate, l’olio extravergine di produzione locale, il pecorino romano stagionato
grattugiato (di produzione locale), una punta di spicchio d’aglio, una puntina di sale grosso: in modo da ottenere una salsa di media consistenza con la quale andremo a condire i pizzicotti o altra pasta corta o lunga (tonnarelli, linguine, spaghetti).

 

MACCHERONI DI CANEPINA ALLA CANAPA CON RAGÙ DI CONIGLIO VERDE LEPRINO E NOCCIOLE DEI MONTI CIMINI

INGREDIENTI
Per 10 persone
la pasta
900 g di farina bianca
100 g di farina di canapa
10 uova
il ragù
(si può usare quello già pronto del Consorzio del Coniglio Leprino – 4 barattoli)
1 coniglio leporino
4 carote
1 cipolla
2 coste di sedano
1 spicchio di aglio intero
1 bicchiere di vino bianco
olio extravergine di oliva
sale e pepe
nocciole dei Monti Cimini tostate


Fare l’impasto canonico, farlo riposare protetto da un panno per un paio di ore, quindi tirare la sfoglia e farla riposare e asciugare un pochino. Arrotolare la sfoglia e tagliare il fieno a punta di coltello. Allargare il fieno tagliato e farlo asciugare.
Fare il ragù: disossare il coniglio e tritarlo finemente in punta di coltello. Tritare le verdure e le erbe aromatiche e farle imbiondire in olio extravergine di oliva, aggiungere il coniglio, sfumare col vino e far cuocere aggiungendo se serve del brodo vegetale. Pestare grossolanamente le nocciole.
Cuocere la pasta in abbondante acqua salata, scolare lasciando la pasta morbida, condire con il ragù di coniglio e guarnire con le nocciole tritate. A piacere, aggiungere una spolverata di pecorino grattugiato grossolanamente.
A differenza delle altre ricette, questa non è direttamente tratta dal ricettario di Italo Arieti.

AgriRistoro Il Calice & la Stella
Piazza Garibaldi, 19
Canepina (VT) - 328 9024 761
www.selvacimina.it

ZUPPA CON CECI E CASTAGNE DELLA VIGILIA

INGREDIENTI
300 g di castagne secche
300 g di ceci
rosmarino
aglio rosso di Proceno
peperoncino
olio extravergine di oliva
sedano
pane casereccio
(in periodi più moderni si sono aggiunti 300 g di pomodoro: passata o secchi a grappolo)

Mettere a bagno i ceci la sera prima in acqua e sale, sbollentare le castagne secche per poterle sbucciare agevolmente e spaccare a metà quelle più grandi. In una pentola, possibilmente di coccio, lasciare cuocere parzialmente i ceci, insieme con un mazzetto di rosmarino, che verrà gettato via successivamente. A parte in un tegamino fare un soffritto con abbondante olio di oliva, aglio, peperoncino, qualche foglia di rosmarino e del sedano a pezzetti; lasciare insaporire per alcuni minuti (in questa fase si possono aggiungere i pomodori a dadini). Aggiungere le castagne secche e, poco dopo, versare il tutto nella pentola di cottura dei ceci avendo cura di aggiungere qualche cucchiaiata di castagne e ceci schiacciati o passati al passatutto, per rendere il brodo più denso e più saporito. A cottura ultimata versare la zuppa sul pane, che avremo predisposto nei vari piatti singoli.

Prima di iniziare a mangiare, lasciare riposare per alcuni minuti. a piatto coperto, affinché il pane risulti bagnato al punto giusto e, se piace, irrorare la zuppa con olio extravergine di oliva.
Questa zuppa, o la minestra di ceci e castagne. venivano preparate tradizionalmente il giorno della Vigilia di Natale nella zona dei Cimini dove abbondano i castagneti, ma anche nelle campagne circostanti a Viterbo. Infatti, quando nell’autunno si raccoglievano le castagne, una parte di queste, private del riccio, venivano tenute a bagno per alcuni giorni, messe in cantina ad asciugare (o immerse nella pozzolana), e conservate per essere poi consumate durante l’inverno.

La presenza di questi frutti nella zuppa, o nella minestra, secondo a racconto dei vecchi contadini del posto, non era dovuta ad una elaborata e sapiente combinazione di sapori, ma più semplicemente al fatto che le castagne, dal momento che potevano essere raccolte liberamente lungo le strade e nei vari castagneti presenti nei colli Cimini, erano disponibili gratuitamente, e quindi venivano utilizzate per integrare i ceci, che invece dovevano essere acquistati; tutto ciò a dimostrazione della grande povertà e frugalità che regnava in quei tempi, poi non così lontani, quando di una persona povera si diceva “deve contare anche i ceci”.

Oggi, poiché la cucina moderna ci sta abituando a nuovi sapori, questo connubio, nato allora casualmente per pura necessità, sembra particolarmente gradito, per cui lo proponiamo, anche al di fuori del giorno della Vigilia, a chi è in cerca di originalità. La stessa zuppa può essere preparata anche senza castagne (zuppa di ceci), ma in questo caso il rosmarino diventa obbligatorio, mentre facoltativo diventa il sedano, che per esperienza personale ci permettiamo però di consigliare ugualmente.

Al Vecchio Orologio
Via dell’Orologio Vecchio, 25
Viterbo - 335 337 754
www.alvecchioorologio.it


POLPETTE COL LESSO O COL BOLLITO
(o polpettone)

INGREDIENTI
1 kg di carne da brodo bollita
1 uova
1 spicchi di aglio
pangrattato
Parmigiano Reggiano o Grana Padano
2 patate cotte nel brodo
prezzemolo
mollica di pane
olio extravergine di oliva

Tritare la parte magra del lesso insieme con il prezzemolo e l’aglio; impastarlo insieme con il pane bagnato nel brodo. l’uovo sbattuto, le patate cotte nel brodo e schiacciate e il parmigiano grattugiato. Dal composto ben amalgamato ricavare delle polpette che, dopo averle passate nel pangrattato, possono essere cucinate sia fritte nello olio di oliva che al forno.
Al posto delle polpette si faceva a volte anche un unico polpettone che veniva cotto sia al forno che al tegame, con un battuto di odori e grasso di maiale.

Angoletto della Luce
Via Valle Piatta
Viterbo - 0761 346804
www.angolettodellaluce.com

COREGONE DEL LAGO DI BOLSENA AL FORNO COL FINOCCHIETTO

INGREDIENTI
4 coregoni da 500 g ciascuno
salvia
olio extravergine di oliva
Sale e Pepe
Aglio
Aceto di vino
Fiori di finocchio selvatici essiccati

Pulire i coregoni portando via le scaglie, sventrarli e pulirli dalle interiora, lavarli delicatamente dopo aver eliminato la testa e sfilettarli togliendo la spina centrale e spinandolo accuratamente. Disporre i filetti in una teglia da forno immersi nell’aceto insieme a due-tre spicchi di aglio intere, alcune foglie di salvia, sale e pepe (alcuni usano al posto della salvia i fiori di finocchio essiccati). Introdurli nel forno e farli cuocere fino a esaurimento dell’aceto, quindi toglierli dal forno, disporli su un piatto da portata e condirli con abbondante olio di oliva.

Il Gargolo
Piazza della Morte
Viterbo - 0761 324599
www.ilgargolo.com

ANGUILLA ALLA CACCIATORA

INGREDIENTI
1,5 kg di anguilla
Rosmarino
Capperi
Acciughe
Aglio
Prezzemolo
Vino bianco asciutto
Salvia
Peperoncino
Olio extravergine di oliva
Aceto di vino

Per questo piatto scegliere anguille di taglio medio, che vanno pulite accuratamente, ossia sventrate gettando via le interiora, spellate esternamente e private della testa. Tagliarle poi a pezzi della lunghezza di 6 – 7 centimetri (direi max 5 cm!) e lavarle in acqua corrente. In un tegame fare un soffritto in olio di oliva con le foglioline di un rametto di rosmarino, due o tre spicchi di aglio sbucciato, ma intero, un pezzetto di peperoncino e due foglie di salvia. Aggiungere successivamente i pezzi di anguilla con un bicchiere di vino rosso, lasciandolo evaporare in modo da far rosolare un poco il pesce.

Muovere il pesce nel tegame senza usare la forchetta o il mestolo, semplicemente scuotendo e roteando il tegame (come una sorta di plin plin portoghese) per evitare di rovinare la carne delicata dell’anguilla. Proseguire la cottura versando nel tegame, se serve, un poco di brodo di pesce fatto con gli scarti dell’anguilla stessa o con un poco di acqua calda. A parte preparare il pesto con 3 acciughe dissalate, uno spicchio di aglio, qualche foglia di rosmarino e di salvia, un cucchiaio di capperi e mezzo bicchiere di aceto.
A cottura quasi completa dell’anguilla versare il pesto nel tegame e completare la cottura con l’eventuale aggiunta di altra acqua calda o vino.

Tredici Gradi
Piazza Don Mario Gargiulli
Viterbo - 0761 305596

 

I SAPORI DEL RITO

IL MENU

L’aperitivo
spumante – pompelmo ed essenza di rosa
Grandori | Viterbo

Pesto alla Viterbese (con i pizzicotti)
Il Casaletto | Grotte S. Stefano | Viterbo

Maccheroni di Canepina con ragù di coniglio verde leprino e nocciole dei Monti Cimini
AgriRistro Il Calice & La Stella | Canepina (VT)

Zuppa con ceci e castagne della Vigilia
Al Vecchio Orologio | Viterbo

Polpette col lesso o col bollito
Angoletto della Luce | Viterbo

Carote alla viterbese
(Confettura di carote in bagno aromatico)
Gran Caffè Schenardi | Viterbo

Coregone del lago di Bolsena al forno col finocchietto
Il Gargolo | P.zza della Morte | Viterbo

Anguilla alla cacciatora
Tredici Gradi | Viterbo

Castagne
La Mastrogregori Aldo & C. Sas | Canepina (VT)

Ceci e lenticchie
Marco Camilli | Onano (VT)

Pasticceria
Nel nome di Rosa
(selezione concorso CNA Viterbo)

Sfoglia di Rosa | Le Cose Buone | Viterbo

Rosa di Rosa | Panificio Anselmi di Raggi | Viterbo

I miracoli di Santa Rosa | Pasticceria Catanese | Viterbo

Il cuore di Rosa | Artigianpan | Viterbo

Il pane di Santa Rosa | Guido Biscetti | La Quercia | Viterbo

Cuore Rosa | L'Etoile di Alice | La Quercia | Viterbo

il Vino
Rosé & Donna

Pacchiarotti | Grotte di Castro (VT) |
www.apacchiarottivini.it

Falesco | Montecchio (TR) | www.falesco.it

Tenuta La Pazzaglia | Castiglione in Teverina (VT)
www.tenutalapazzaglia.it

Cantina Castelli | Cannaiola di Marta Martino IV
Marta (VT) | www.aziendagricolacastelli.it

Viticoltori del Colli Cimini | Principe Alessandro
spumante extra dry
Vignanello (VT) | www.collicimini.it

L’olio di oliva
i migliori extravergine al femminile

A casa di Ale | Az. Agr. Alessandra Boselli
Bassano in Teverina (VT) | www.acasadiale.com

Le Amantine | Tuscania | www.leamantine.com

Laura De Parri – Cerrosughero | Canino
www.oliocerrosughero.it

Acqua di Nepi | www.acquadinepi.it

Fuori Menù
Formaggi & Salumi

Cagliatine fresche e ricotta
Fratelli Pira | Ischia di Castro (VT)

Il fiocco della Tuscia e ricotta ovino vaccina Chiodetti | Civita Castellana (VT) | www.formaggichiodetti.it

Formaggi di capra
Ciambella Monte Jugo | Viterbo | www.montejugo.it

La coppa di testa e la susianella
Il Casaletto | Grotte S. Stefano (VT) | www.ilcasaletto.it

Guanciamia e susianella
Coccia Sesto | Viterbo | www.cocciasesto.it

Salame del contadino e susianella
Stefanoni | Viterbo

Mortadella e prosciutto
Isal | Viterbo | www.isal.it

Comune di Viterbo

Provincia di Viterbo

PROGETTO
Responsabile della ricerca e coordinatore
STEFANO POLACCHI - giornalista enogastronomico

Realizzazione operativa
A.P.S. ETRURIA IN

Grafica
SONIA CIUCHINI

Stampa e organizzazione
LA PIAZZA SRL

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