Viterbo STORIA
Mario Minissi
"Ripenso con nostalgia ai vari personaggi tipici dell'epoca: Scanfarra (raccoglitore di cicche), la povera Caterina (che vendeva violette), Pizzaecacio (venditore di caldarroste e coriandoli "zighirinati" di Lùtene), l'onorevole Coroja, il Cavalier Pela..."

La Chiesa di san Luca in Via Matteotti angolo Via san Luca (1944)

I miei ricordi del periodo bellico a Viterbo non sono certamente piacevoli.

Anche se all’epoca dell’entrata in guerra dell’Italia (giugno 1940) avevo poco meno di due anni e alla fine circa sette, ciò nonostante alcuni  eventi sono rimasti ben scolpiti nella mia memoria.

Nel ’42 mio padre era stato da poco cacciato di casa e ti lascio immaginare il mio stato d’animo, sotto le bombe, senza un padre, con una madre isterica e in ristrettezze economiche, tutte cose che credo abbiano influito pesantemente e negativamente sulla mia psiche.

A proposito di mio padre, fammi fare un breve passo in avanti.

La mattina del 4 settembre 1978, durante un furioso temporale, mi recai all’ospedale Santo Spirito per donare il sangue per mio padre che stava per subire un intervento operatorio, poco prima di morire. Con quel gesto ritenni di aver saldato il mio debito che avevo con lui per l’unica cosa che mi aveva dato: lo sperma con cui mi aveva messo al mondo.

Tornando a “bomba” (è il caso di dirlo), il primo ricordo in ordine temporale è quando per la prima volta, in mattinata, suonarono le sirene dell’allarme aereo. Ci riversammo tutti i condòmini nel pollaio che era nel giardino a piano terra!. Questo ti dà un’idea di come fossero scarse le nozioni su ciò che ci aspettava. Forse si pensava che le bombe cadessero solo sugli edifici: bombe intelligenti ante litteram. Subito dopo, avendo preso coscienza, durante gli allarmi ci riunivamo nell’androne del palazzo,  evidentemente i rifugi non erano ancora stati approntati. Di notte scendevamo in camicia da notte (i pigiami non esistevano) armati di candele. Qualcuno recitava il rosario.  

Il Palazzo Galeotti, sede della Provincia di Viterbo, distrutto dai bombardamenti (Archivio Mauro Galeotti)

Il primo vero rifugio fu una specie di grotta scavata nel giardino del Palazzo della Provincia. Quando, terminato l’allarme, uscimmo, trovammo una bomba di una tonnellata caduta inesplosa di fronte all’entrata. Era un grosso cilindro verdastro. Fra le donne iniziò allora una accesa discussione per stabilire a chi andasse riconosciuto il merito del “miracolo”: se alla Madonna o a qualcuno dei santi implorati durante la permanenza nel rifugio. Qualcuna citò il beato Crispino, dal momento che il suo corpo era conservato nella vicina chiesa, ma fu prontamente zittita: un miracolo così importante non poteva essere merito di un semplice beato.

Alla fine la maggioranza si mise d’accordo nell’attribuire il prodigio a Santa Rosa.  In seguito frequentammo un rifugio approntato presso la chiesa dei Cappuccini da cui, dopo un bombardamento ci recammo a casa (in via Monte Asolone 11) e trovammo che era stata pesantemente danneggiata da una bomba caduta sull’ala adiacente del palazzo.

Ci trasferimmo allora in un appartamento al quinto piano di Piazza san Simeone.  Durante un allarme notturno, nel vicino rifugio, arrivò un uomo coperto di sangue. Penso che da quell’episodio abbia avuto origine il mio orrore per il sangue. Anche le case di nonno Evaristo, in via del Pavone, erano state rase al suolo.  

In seguito gli eredi (Alberto, Gino, Lidia, Jole e la nonna Linda, detta  Cocò) ebbero un rimborso per danni di guerra di 300mila lire, che si divisero tra di loro. Il negozio di orologeria di papà, ormai abbandonato, fu invece saccheggiato e incendiato dai fascisti. Un suo amico e collega (Pio Bennati) ci portò una scatola piena di orologi bruciati.

Un giorno arrivò un camion carico di sale grosso (merce allora introvabile) che venne prontamente assalito e saccheggiato, mentre io riuscii a riempire le tasche dei calzoncini con la preziosa merce. La fedele “colf” Palmira (all’epoca si diceva “serva” e nessuno se ne aveva a male), sul tavolo di marmo e con una bottiglia di vetro, lo trasformò in sale fino. Mi sentii fiero dell’operazione.

Anche questa casa venne bombardata e fummo momentaneamente ospitati nel convento dei frati Cappuccini alla Palanzana. Si dormiva sul pavimento della chiesa, tra i banchi, mentre a mezzogiorno i frati ci passavano una brodaglia di verdure, di cui gliene sono ancora grato. Mi chiedo perché non andammo sfollati dalla nonna Giuseppina a Grotte Santo Stefano. Per fortuna che c’era il padre della mamma (nonno Filippo, mai conosciuto) che ci aiutava economicamente, e riuscimmo a trovare alloggio presso un appartamento della famiglia Giordano (in via 4 Novembre).   

Il fattore del nonno, Beniamino, ci portava, con la bighetta, bieda e altri ortaggi. A volte, invece, andavo a piedi al podere (in località Le Farine) con la Palmira: circa 5 km all’andata e altrettanti (carichi) al ritorno, ma per quei tempi era una cosa normale. Spesso incontravamo un vecchietto ergastolano, con la divisa a righe, che portavano a lavorare chissà dove. 

Se non proprio la fame l’appetito si faceva comunque sentire. I generi di prima necessità si acquistavano tramite i bollini della tessera annonaria. Chi poteva acquistava le cose alla borsa nera. I padri Giuseppini, dopo la messa, ci davano un panino con la cioccolata. Erano tutti di origine veneta e li ricordo con particolare affetto (questi sì) (don Roberto, don Armando, don Pietro…). Un giorno venne a far visita all’oratorio il vescovo mons. Adelchi Albanesi. Tutti i bambini in fila dovevano baciargli la mano (o l’anello?). Per me la cosa era inconcepibile già da allora e mi limitai a stringergli la mano: la cosa destò scalpore. Anni dopo tornai dove c’era l’oratorio e trovai solo caseggiati. 

La dieta era quasi unicamente vegetariana e scarsa. Allora non c’erano problemi di colesterolo,di glicemia e di … panza; avete notato nei filmati dell’epoca come si era tutti belli snelli? Solo a Ferragosto si mangiava carne di pollo e si comprava un pezzo di ghiaccio per tenere al fresco il cocomero, mentre a Pasqua non mancava la pizza col salame e la “scarsella” con l’uovo. Ci dilettavamo a fare l’acqua minerale con le polveri Alberani.

Con la Palmira ho imparato a conoscere le piante selvatiche commestibili: cicoria dente di leone a fiori celesti (cichorium intybus), cicoria a fiori gialli (taràxacum officinalis), costa d’asino o pisciacane (hypochoeris neapolitana), luppolo, vitabbie (clematis vitalba), fiori di robinia (robinia pseudoacacia) e fichi selvatici da fare fritti, caccavelle (cinòrrodi di rosa canina), porcacchia (portulaca oleracea), etc… nonché le piante aromatiche: sarapollo (thymus serpillum), finocchietto (foeniculum vulgare), mentuccia, camomilla, etc. 

Intere generazioni si sono nutrite per secoli con la flora selvatica, grazie alla conoscenza delle risorse naturali che l’ambiente offriva, tutte nozioni che attualmente i giovani ignorano.

Per riempire un secchio di “monnezza” ci volevano parecchi giorni, poiché si riciclava tutto. Niente andava sprecato; ancora oggi se debbo buttare un pezzo di pane secco, mi piange il cuore. Per la carta igienica si usavano i vecchi giornali, tagliati a riquadri e infilzati con lo spago. Il latte che spesso si inacidiva (non c’erano i frigoriferi) veniva trasformato in una specie di caciotta. Il“caffè” veniva fatto con le radici di cicoria tostate.

Per meglio sbarcare il lunario avevamo affittato una stanza della casa, nel frattempo resa agibile, ad un tenente dei paracadutisti siciliano, Enzo Maimone, col suo pointer Tuè, anche per evitare che la casa venisse requisita dai tedeschi. Ci portava spesso scatolame militare, tra cui una marmellata di castagne molto buona, in scatole metalliche quadrate. Una volta ci trovammo dentro i vermi. Ci portò anche un vecchio paracadute, che la mamma trasformò in camicie. Era abbastanza singolare che tra gente vestita di stracci si andasse in giro con camicie di seta. Un mio amichetto, Luigi De Rosi, molto buono ma meno fortunato, indossava una specie di sacco marrone con cinque buchi, per la testa e gli arti.            

In seguito a me facevano indossare gli indumenti riciclati dei fratelli maggiori. I cappotti, rivoltati, avevano l’occhiello a destra anziché a sinistra. Questo mi ricorda che quando mi sposai dissi al sarto (Pintaldi) che la giacca doveva essere senza occhiello e i pantaloni con la zip anziché i bottoni. La cosa lo lasciò interdetto.

Il fuoco è sempre stata la mia passione. Una volta accesi un fuocherello e ci buttai sopra delle cartucce di fucile (alle quali avevo tolto la polvere e le ogive); la Palmira calpestò il fuoco per spegnerlo, mentre i bossoli scoppiavano. La mamma, preoccupata, la sorprese mentre davanti allo specchio si toglieva le scheggette dal sedere.

Numerosi erano i residuati bellici che si trovavano. Smontavamo le bombe per ricavarne una polvere azzurrina, e le saponette di tritolo.

Con gli “spaghetti” di balistite, la polvere dei cannoni, facevo dei minirazzi detti “scrocchiazeppi”. Giorgio, nel preparare i botti di capodanno, si fece esplodere fra le dita un detonatore, di cui portava ancora le scheggette nei polpastrelli. I più grandi facevano le bombe col carburo. In mancanza di acqua una volta mi chiesero di fare pipì nel barattolo. Quando questo esplose una scheggia si piantò nell’albero dietro al quale mi ero riparato, mentre un’altra perforò il ginocchio di un certo Caravello. Coi bossoli della contraerea, opportunamente cromati, si facevano dei bei vasi per fiori: ne ho ancora uno.

Per vari incidenti ero un cliente fisso dell’ospedale. Per cogliere un grappolo d’uva mi arrampicai sul reticolato e, cadendo, mi squarciai il polso destro sul filo spinato. A tre anni mi spaccai la fronte sbattendo sullo spigolo della gamba del tavolo.

A quattro anni caddi all’indietro da un carretto e mi ruppi entrambe le clavicole. Mi tirarono le due braccia per far combaciare gli ossi spezzati e mi ingessarono come Cristo in croce. Nel frattempo mi venne anche la rogna (allora abbastanza diffusa) e ti lascio immaginare il divertimento. D’inverno, per il freddo, avevamo tutti i geloni ai piedi e alle mani, nonché i foruncoli, forse a causa dell’alimentazione precaria. Suppongo che i giovani attuali neanche sappiano cosa siano. Al mattino si grattava via il ghiaccio che si era formato all’interno dei vetri.

Nel rigido clima di Viterbo si girava in calzoncini corti e con gli zoccoli di legno con sotto pezzi di copertone. Solo la domenica, per andare a messa, si mettevano le scarpe con i micidiali ferretti che facevano fare degli scivoloni memorabili.

I termosifoni o stufe non esistevano e nelle interminabili rigide serate invernali (in assenza di televisione o altri svaghi) ci si scaldava con lo scaldino di coccio ripieno di carbonella. L’alternanza di caldo e freddo sulle cosce produceva delle macchie bluastre dette “vacche”. Lo scaldino era oggetto di contesa coi fratelli per appropriarsene.

 

Lo scaldino in coccio realizzato a Vetralla

 

Purtroppo non rammento atteggiamenti affettivi da parte dei fratelli maggiori nei miei confronti, fatta eccezione per Giorgio, anche in seguito.

Nel frattempo cominciai a frequentare l’asilo e la scuola presso le suore della “Beata Angelina”. Mi è rimasta impressa la loro cattiveria e ottusità. Una volta fui duramente bacchettato sulle gelide mani perché mi ero lamentato che quel teppista del mio vicino di banco (Mezzetti) mi aveva dato un “cazzotto” : “è una parolaccia, non si dice”.

Ogni mattina, per circa un’ora, eravamo chiusi nella oscura cappella a recitare le incomprensibili orazioni e litanie lauretane in latino (turris eburnea, ora pro nobis, foederis arca…): un vero incubo. Aspettavo con ansia la quarantaduesima litania “stella mattutina” che mi piaceva e mi consolava un po’. In aula c’era un poster con un vecchio barbuto che ci guardava attraverso un triangolo; mi dissero che quello era Dio e la cosa mi inquietava. La classe era mista e mi invaghii di una contadinella di nome Caterina. Un paio di volte, nell’ora di ricreazione, me ne fuggii a casa e venni severamente redarguito. Un mio amichetto irrequieto (Mauro Celestini) venne legato alla gamba della cattedra.

Quando la suora si assentava momentaneamente, veniva assegnato al capoclasse mafioso il compito di segnare sulla lavagna i buoni e i cattivi. I cattivi erano quelli che non restavano impietriti e che sarebbero stati bacchettati. Per cancellarli il mafioso pretendeva in cambio figurine, biglie, merendine. Credo che abbia fatto molta carriera nella vita.

Avevo da poco terminato la prima elementare quando venne il postino con una lettera raccomandata. Nel consegnarmela mi fece mettere una crocetta su di un libretto che aveva con sé. Seppi in seguito che quella crocetta sostituiva la firma, in quanto credeva che non sapessi scrivere il mio nome: mi sentii ferito nell’amor proprio. Per la cronaca quel tipo di lettere venivano dal padre della mamma, che scriveva fittiziamente come mittente “Assunta Del Soldato”.       

Un giorno, tornando a casa, vidi dei ragazzi che avevano acceso un fuoco e mi fermai per guardarli, quando da un giardino sbucò una donna infuriata gridando che le avevano bruciato la sua cesta di paglia della spesa. I ragazzi se la dettero a gambe mentre io, ingenuamente, non avendo commesso alcuna colpa, rimasi immobile. La megera se la prese allora con me e pretese dalla mamma il pagamento della borsa (venti lire). Questa ingiustizia e la mancanza di fiducia mi ferirono profondamente.

Per quanto riguarda l’aspetto ludico, ci trastullavamo coi seguenti giochi: nascondino, campana, battimuro, piastrelle, circuito con palline o tappetti, figurine (ala o gobba)… Qualche volta si riusciva ad ottenere una vecchia copia del Corriere dei Piccoli. Se invece confezionavamo una palla con gli stracci, allora si organizzava una partita di calcio e, se c’era necessità di giocatori, venivo selezionato anch’io, ma per ultimo e regolarmente sbattuto in porta.

Ci si trastullava anche con ingenui passatempi: si premeva sulla fronte la cariosside del papavero per tatuarne una stellina nera, si soffiava sulle infiorescenze del taràssaco facendone volare gli acheni con il loro pappo piumoso, con la canna si confezionavano zufoli e cerbottane, con la corteccia del pino si facevano barchette, gli steli dell’avena servivano per catturare le lucertole, con le foglioline della parietaria si creavano precarie decorazioni attaccandole ai vestiti, si scimmiottavano i fumatori coi segmenti secchi di vitalba…

All’epoca l’usanza dell’albero di Natale era sconosciuta, si faceva soltanto il presepio. I doni non venivano scambiati tra gli adulti a Natale, ma erano dati soltanto ai bambini per l’Epifania. Per me, che sono nato il 29 dicembre, sia nell’uno che nell’altro caso le due ricorrenze venivano unificate e, se andava bene, ricevevo un solo regaletto.

Ripenso con nostalgia ai vari personaggi tipici dell'epoca: Scanfarra (raccoglitore di cicche), la povera Caterina (che vendeva violette), Pizzaecacio (venditore di caldarroste e coriandoli "zighirinati" di Lùtene), l'onorevole Coroja, il Cavalier Pela, Fastidio (noleggiatore di biciclette), la Cocimelovo, Staccolino, il profumiere Scarciofoletto, la tabaccaia sora Angelina, Peppeloca, la fruttivendola Annetta, Pizzabbiocca, il barista sor Umberto etc..

C'era anche Umbertino "gojo", detto lo scemo del villaggio perché andava in giro per la strada parlando da solo. Oggi, coi telefonini dotati di auricolare, è diventato impossibile identificare lo scemo del villaggio. A proposito della suddetta Caterina è rimasto famoso l'episodio di quando la moglie del Prefetto, nel rifiutare le violette , le disse che puzzavano, e lei ribatté: "la fregna te puzza".

Parliamo ora un po’ di fatti militari. I tedeschi erano molto gentili, ci davano pane nero e organizzavano feste da ballo. Il loro passatempo era sparare con la Mauser alle lampadine dei lampioni. Quando ai primi di giugno 1944 fuggivano da Roma verso nord, mi trovavo con Giorgio a Porta Fiorentina, seduto sulla canna della bicicletta. Passò una autocolonna tedesca in fuga che, seguendo la Cassia, proseguì verso Firenze.

Dopo pochi minuti arrivò un secondo troncone dell’autocolonna e il militare della prima camionetta ci chiese se avevamo visto passare altri mezzi. Giorgio alzò il braccio sinistro e indicò la strada per Orte, che loro imboccarono. Con una ginocchiata Giorgio mi fece capire che non dovevo reagire. A volte penso a quei soldati che ancora staranno vagando per la valle del Tevere alla ricerca dei camerati.

Mi sorprende come fosse diffuso questo astio verso i tedeschi, sebbene fossero nostri ex  alleati. Spesso penso che se all’epoca fossi stato più grande avrei aderito alla Repubblica Sociale, per ripagarli del tradimento che gli avevamo inflitto. Anche verso gli ebrei mi ricordo che, per me inspiegabilmente, c’era animosità.       

Il fratello della Palmira, Luigi Di Pietro, aveva accoppato a badilate due tedeschi che erano entrati nella cantina del podere di cui era mezzadro  presso Bagnoregio, in località Pidocchio, e si erano ubriacati rompendo poi le botti. 

Dopo essersi appropriato dei preziosi scarponi, li aveva sotterrati accanto alla cantina. Alcuni anni orsono mi recai in loco per vedere se c’era ancora qualche traccia per informarne l’ufficio di Kassel che ricercava i miltari dispersi, ma un vicino di podere (ormai disabitato e invaso dai rovi) mi disse che la zona era stata da tempo “bonificata”. Per la cronaca, Luigi morì investito da un’auto a Montefiascone.

Un certo Camillo Crispigni con un colpo di fucile prese il pilota di un piccolo aereo da ricognizione tedesco (cicogna), che cadde in località Grotticelle. Raccontava che, da giovane balilla, lo misero a vegliare un vecchio gerarca fascista che era deceduto; coi suoi camerati si divertivano nottetempo a saltargli a turno sulla pancia per farlo scorreggiare.

Sebbene non avesse alcuna importanza strategica, Viterbo venne praticamente rasa al suolo dai circa 800 massicci bombardamenti delle fortezze volanti angloamericane, come molte altre città italiane e tedesche, causando innumerevoli vittime tra gli inermi cittadini, come in seguito avvenne per il Giappone, con mezzi ben più micidiali. Penso che se le forze dell’Asse avessero vinto la guerra, gli americani sarebbero stati processati per crimini contro l’umanità.

Ricostruzione del duomo di Viterbo colpito dai bombardamenti (Archivio Mauro Galeotti)

I pesanti bombardamenti avevano colpito anche il Duomo di San Lorenzo. Recatosi in loco per curiosare, Luciano tornò a casa con una vecchia vertebra umana, trovata tra le macerie. La mamma lo spedì immediatamente a rimetterla dove l’aveva presa. Certamente si trattava di un osso del papa lusitano Giovanni XXI, l’unica persona sepolta nel Duomo.

Un paio di volte venimmo mitragliati dagli aerei, forse caccia Spitfire inglesi, ma ci salvammo gettandoci a terra e in un fosso. E’ un vero miracolo che in questi frangenti nessuno di noi ci abbia lasciato la pelle. Solo il figlio dello zio Fiorano morì nell’affondamento del sommergibile sul quale si trovava. Era il fidanzato della zia Lidia, che pertanto rimase zitella.

I boati dei continui bombardamenti mi avevano traumatizzato. Quando, in seguito, per la festa della patrona Santa Rosa venivano fatti i fuochi artificiali (le foche), ero terrorizzato da quei botti. Addirittura, quando andai a fare il servizio militare, temevo che mi mandassero in artiglieria!

Nel mentre combattevo tra suore, pidocchi in testa, pappataci e feroci mosche (non c’era ancora il DDT), avveniva, a mia insaputa e a 500 km di distanza, l’evento più importante della mia vita: nasceva Bea (5.4.’44).

Tornando ai militari tedeschi diretti a Firenze, questi avevano lasciato 3 o 4 carri armati Tigre sui crinali del lago di Bolsena con i quali si spostavano in continuazione sparando, facendo così credere, agli alleati che incalzavano, che fossero numerosi. Riuscirono a ritardarne l’avanzata per 2 o 3 giorni, causando molte perdite all’avanguardia inglese. Nei pressi di Bolsena c’è un cimitero militare che raccoglie i loro resti.

In quel periodo un aereo americano fu abbattuto nella boscaglia nella località Sette Cannelle. Ci fu una gara per depredarlo. Io mi assicurai il ruotino del carrello anteriore che, anziché avere la camera d’aria, aveva un gomitolo aggrovigliato di elastichetti grigi, molto utili per farci vari giocattoli. Con molta pazienza si riusciva ad estrarne degli spezzoni non più lunghi di un metro.

Un giorno ad un amichetto (Giancarlo Mazza, ora notaio a Roma) in cambio di alcuni francobolli gli concessi di prendersi tutto l’elastico che riusciva a tirare fuori. Ci si mise di buzzo buono e, in qualche ora, ne ricavò un pezzo lungo oltre 10 metri, con mio grande disappunto. Un altro amichetto (Guido Crisanti) aveva dei bei francobolli che gli mandava uno zio (Goliardo Sarrocchi) che era caposcalo AZ all’isola del Sale (Ilha do Sal). Alcuni anni dopo, entrato in Alitalia, me lo ritrovai come collega al Servizio Scali!

Ma il mio migliore amico di quel periodo fu un grosso gatto soriano detto “Capoccione”, miracolosamente sfuggito a chi li ricercava per mangiarli o per farci il sapone. Mangiava i (pochi) avanzi dei nostri pasti, ma quando riuscivo a racimolare 10 lire, correvo a comprargli un pezzo di polmone (per ogni mosca che ammazzavo, venivo remunerato con una lira). Gli tagliavo regolarmente le lunghe vibrisse: immagino quante capocciate desse di notte, senza quegli utili strumenti. Di notte, invece, mi faceva compagnia un tarlo che rosicchiava incessantemente la spalliera del letto.

Il bagno si faceva una volta al mese (la doccia non esisteva). D’inverno, poi, dovevo indossare una maglia di lana grezza e urticante fatta dalla Palmira: un vero supplizio che durava giorni. Ancora mi vengono i brividi a pensarci. Il bagno veniva fatto anche in caso di spostamenti (non si sa mai, si dovesse andare in ospedale), e anche per brevi tratti si doveva prendere la purga, per il “cambiamento d’aria”. Se si aveva qualche linea di febbre, dopo la peretta d’ordinanza, si restava a letto per altri due o tre giorni dopo che era passata. Si veniva ingozzati con olio di fegato di merluzzo.

Avendo un’ernia addominale, la Palmira si era rivolta al guaritore del suo paese. Questi la fece passare attraverso un arbusto spaccato longitudinalmente, per poi riattaccarlo nel mentre recitava le “diasille”. Inizialmente l’alberello si era ripreso e l’ernia era diminuita, ma poi si è seccato e la Palmira ha dovuto essere operata. In sua assenza aveva fatto venire la sorella Titta per sostituirla.La salute era, in effetti, una preoccupazione costante in quei tempi.

In assenza di antibiotici si moriva per polmonite, tubercolosi, difterite, etc… Esistevano solo i sulfamidici, scarsamente efficaci. Anche la polio mieteva molte vittime. La mamma faceva severo divieto ai fratelli maggiori di passarsi la cicca della sigaretta con gli amici, essendo, ovviamente, tutti tisici se non addirittura sifilitici. Nel frattempo gli amici più grandicelli erano misteriosamente scomparsi. Si seppe che si erano rifugiati nei seminari: presi da crisi mistica o per sfuggire al reclutamento?

D’estate venivo spedito a Grotte Santo Stefano dalla nonna Giuseppina Misericordia, detta sora Peppa. La prima volta fu in occasione della visita che venne a farci la zia Lidia col suo datore di lavoro Lino Di Nobile e la sua Balilla. Con loro andammo a Grotte. Mentre mi trastullavo nell’orto sentii le portiere della Balilla che si chiudevano e la macchina che “sgommava”. Ero stato abbandonato senza che mi fosse stato detto nulla. Evidentemente a quei tempi era quello il rispetto che si aveva per i bambini, ma io ne rimasi molto amareggiato.

Per fortuna c’era come vicino l’amichetto Renato Ricci, figlio del segretario comunale. C’era anche la sua cuginetta, con la quale giocavamo al dottore e all’ammalata. Il passatempo preferito era, però, distruggere i nidi delle rondini con la fionda e ammazzare le lucertole, senza che nessun adulto avesse nulla da obiettare. Ma, d’altra parte, cosa c’era da aspettarsi da gente che scannava il maiale nella piazza e le cui grida strazianti ancora mi risuonano nelle orecchie?

Quando i tedeschi se ne andarono lasciarono davanti alla chiesetta un cannone (privo di culatta) , col quale giocavamo.

Penso con rimpianto alla vita sfortunata della nonna.       

Da giovane era stata “sedotta e abbandonata” da quello che, in seguito, verrà definito “insigne giurista”, nelle targhe stradali di Roma e Viterbo. Mi ricordo che mi faceva fare la pipì nella bottiglia per vedere quanta ne facevo e in continuazione tastava le galline per sentire se stavano per fare l’uovo e se stavano male dava loro da bere un’acqua colorata di azzurro mediante la corteccia di un arbusto.

Mi spiegava che la Via Lattea (all’epoca ben visibile) era dovuta al latte caduto dal secchio bucato di San Giuseppe mentre portava il latte a Gesù. Si era più volte impegnata a comunicarmi i numeri del lotto una volta morta (promessa non mantenuta). Soffriva di cuore e mentre era ricoverata all’ospedale di Viterbo, lo scoppio della bottiglia collegata alla bombola dell’ossigeno le causò un infarto (oggigiorno…).
 
Il suo marito, il mite Attilio Ranucci (che, ora con molto rammarico, mi dispiace di non averlo mai chiamato nonno)  era analfabeta o, come diceva lui, alfabeto. Da giovane era emigrato in America dove fu messo a lavorare in una miniera di sale. Diceva che aveva imparato solo a contare, e voleva insegnarmi i numeri in inglese: “unze, dunze, trenze, quali, qualinque, meli, melinze…”. Coi soldi risparmiati si era comprato un piccolo appezzamento di terra detto “La Renara” in località “Le Case”.

Al mattino si andava a piedi a lavorare in questo campo. Qui scorreva un ruscelletto dove mi dissetavo e con la cui acqua innaffiavo i peschi “adacquativi”. Al lato del sentiero avevamo scoperto una pianta di cocomero con un bel frutto ancora acerbo.

Ogni mattina ne controllavamo la crescita, avendo poi cura di coprirlo col fogliame. Un giorno ci trovammo solo le bucce. A volte incontravamo i contadini con le scarpe legate al collo, che avrebbero indossate una volta arrivati al paese. Andavamo a prendere l’acqua “acetosa” alla sorgente del Conventino. Una volta mi cadde un fiasco, che si ruppe: una tragedia. In seguito andavo a trovare la nonna in bicicletta e la mamma mi cuciva nel taschino della camicia i soldi che le mandava; la nonna ricambiava con le uova “fetate dalle galline”.          

Un tempo andai anche a casa della Palmira, forse in occasione della morte di sua madre. Era d’inverno e c’era molta neve. Col suo fratello minore, Amedeo, catturavamo i passeri con le tagliole e la “pietrangola” e li cuocevamo nel caminetto. Si dormiva sul pagliericcio ripieno di brattee di granturco e ci si alzava al canto del gallo. Una volta andata “in pensione” la Palmira si era stabilita a casa della sorella Giulia (in località Capobianco, verso Montefiascone) e la andavo a trovare spesso. Mi raccontava che una volta, da giovane, mentre portava al cimitero una bambina, sentiva che questa ancora gemeva flebilmente.

Con l’arrivo degli alleati le cose cambiarono  in meglio. Rimasi meravigliato nel vedere i militari “negri” (all’epoca si poteva dire) ma mi dovetti ricredere sul fatto che “l’uomo nero” fosse cattivo. Si erano accampati in una piazza vicino casa e, a mezzogiorno, a noi bambini ci servivano nella ciotola una zuppa di piselli. Ci davano anche una specie di gomma che andava masticata senza ingoiarla. Per radersi si guardavano nello specchietto retrovisore della jeep.

Sul passaggio a livello incustodito di Grotte apposero un cartello con una scritta misteriosa: ”rail road crossing”. Mi divertivo a mettere le pietre sulle rotaie per vederle schizzare via al passaggio del treno e mi piaceva sporgermi dal parapetto del tunnel per venire investito dal vapore della locomotiva.

Nel frattempo i fratelli frequentavano il collegio “Ragonesi” dei fratelli Maristi. Anch’io in seguito ebbi la ventura di frequentare quella scuola. Non dimenticherò la perversione e cattiveria di alcuni di loro. Fratel Francesco, insegnante di matematica, siccome ero distratto mi dette un pugno: mi fischiò l’orecchio sinistro per tre giorni. Oggi sarebbe finito in tribunale. L’insegnante d’italiano (non ricordo il nome) mi chiuse in classe al termine delle lezioni, mentre la mamma disperata mi attendeva per il pranzo. Per vendicarmi di questi e altri soprusi, detti fuoco alla porta di legno del cortile del collegio.

I miei ricordi dei primi sette anni passati a Viterbo non sono stati dei più felici (per non parlare dei successivi quindici!), ma ciò nonostante provo nostalgia per il luogo natio, una specie di odio amore, che mi porta di tanto in tanto a fare un salto tra le sue vecchie mura.

A volte ripenso ai sacrifici che ha dovuto sopportare mia madre per portare avanti quattro figli in quelle condizioni e debbo rivedere, col senno di poi, gli aspetti del suo carattere.

Bene, penso di aver detto, in questo “cahier de dolèance”, tutto quello che mi ricordavo; forse mi sono allargato un po’ troppo, ma spero di avere esaudito la vostra curiosità. Tra l’altro questa rivisitazione ha avuto per me un effetto un po’ catartico.

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Agosto 2011
tratto da https://sites.google.com/site/famigliaminissi/ricordi-di-guerra-a-viterbo

Ringrazio Mario Minissi per le memorie che ha voluto diffondere sul sito della famiglia Minissi, ho avuto il piacere di ripubblicarlo sul web, per l'interesse sociale che ha, tramite il quotidiano che dirigo, per far conoscere ai nostri lettori ed ai ragazzi la vita viterbese in tempo di guerra.

Mauro Galeotti