Viterbo STORIA
Mauro Galeotti

 

Piazza delle Erbe nel 1910 con il Palazzo Sterbini sorto sulla Chiesa di santo Stefano (Archivio Mauro Galeotti)

Merita un ricordo, anzi due, anche da parte di Elisa Angelone che scrive la storia nel precedente articolo, la Chiesa di santo Stefano a Viterbo, perché quasi nessuno oltre l'amico Corrado Buzzi, il quale ha trascritto di essa il "Catasto", ne conosceva la storia, l'esistenza.
Queste due storie della chiesa sono dedicate al grande, umano, studioso, mio amico, Corrado, che non c'è più.

Corrado Buzzi

La chiesa sorgeva sull’area dell’attuale Casa della Pace. 

Secondo alcuni storici, aveva la facciata sul Corso e si prolungava a monte con l’abside verso Via del Teatro del Genio. Il primo documento che la ricorda è datato 6 Dicembre 1080, lo cita Giuseppe Giontella. 

Si tratta di una convalida, da parte del vescovo Giselberto (…1059 - 1080…), eseguita davanti alla chiesa, della donazione della Chiesa di santa Maria Nova, da parte di tre viterbesi a favore del vescovo stesso. Altra menzione della chiesa è del 1083. Era nel Vico Prato Cavalluccalo.

Questo Vico, compreso tra l’attuale Piazza del Plebiscito, l’inizio di Via Saffi da Piazza delle Erbe e quest’ultima piazza, è nominato nel 1055 vico pratu cavalluccalo, nel 1073 bicu pratu Cavalluccalu supra Castru Bitervu, nel 1077 in prato cavalluccalu ed ancora in prato cavallu calu o in pratu cavalluccialu.

Nel 1090 divenuto di una certa importanza è detto burgo Biterbo.

Si hanno notizie della Chiesa di santo Stefano grazie alla famiglia Fajani o Flajani che trovo patrona nel 1127, la quale in quell’anno, tra il 1° Settembre ed il 20 Dicembre, la donò al vescovo della Diocesi di Tuscania, Pietro II (…1126 - 1128…), e al clero viterbese.

Questa facoltosa famiglia aveva il palazzo presso la chiesa e la facciata dello stesso era su Piazza delle Erbe.

Lo stemma dei Fajani, secondo Mario Signorelli, era: d’azzurro al grifo d’argento attraversante una banda ondata di rosso.

Nel 1170 e 1172 i Viterbesi distrussero la vicina città di Ferento e il priore Iacopo, della Chiesa di san Bonifacio, innalzata in quella città e poi abbandonata, decise di unire il titolo di san Bonifacio a quello di santo Stefano: Ss. Bonifatii et Stephani.

Di conseguenza furono incorporati i beni della chiesa ferentana. Da Ferento vi furono trasferiti il corpo ed i paramenti attribuiti al vescovo san Bonifacio (519-530). I paramenti, quando la Chiesa di santo Stefano fu distrutta, vennero trasferiti al Duomo.

Pietro Egidi non ritiene siano attribuibili al santo per «la forma, e per il taglio, e per i particolari decorativi specialmente del camice e per i caratteri che in alcuni punti sono leggibili, non è dato risalire al di là del sec. XII».

Raniero I, vescovo di Viterbo dal 1199 al 1222, il 3 Giugno 1203 la elevò a priorato e a canonica che nel 1568 fu soppressa. Nel 1203, per la prima volta è nominata di santo Stefano e Bonifacio, titolo che terrà fino ai primi del ‘300. Nel 1208 si ha notizia dell’esecuzione di alcuni restauri.

Fu consacrata nel 1219 da papa Onorio III, il quale confermò i privilegi appartenuti alla chiesa e, nello Statuto di Viterbo del 1251, si stabilì che gli operai, in cerca di lavoro, dimoranti nelle contrade che fanno capo alle Porte di san Matteo e di san Sisto, dovevano sostare sulla Piazza di santo Stefano, alfine di essere più facilmente individuati ed interpellati. A causa del terremoto, accaduto tra il 7 e il 9 Settembre 1349, la chiesa subì gravi danni per la caduta dell’antistante torre Gatti la quale rovinò la facciata ed il porticato, o loggia, esistente sin dal 1331.

Nel 1363 fu disposta la pittura del Crocifisso con ai lati la Vergine Maria, Giovanni Battista e santo Stefano. Riedificata e restaurata fra il 1494 ed il 1503 vi trovo nel 1509, quale canonico, Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III. Nella chiesa si radunava l’Arte dei Pizzicagnoli, ricostituita nel 1455, la quale aveva le botteghe sulla vicina Piazza delle Erbe.

Lo stesso faceva l’Arte dei Tavernari, Osti e Albergatori che agiva secondo le norme di uno Statuto redatto nel 1473, quando i Tavernari si unirono agli Albergatori, e «scripto, restaurato e ricopiato» nel 1565 da Paolo Pucci da Colle. Vi era anche l’Arte degli Speziali. Nel 1550 si mise una cancellata dinanzi alla chiesa, eseguita con vecchie catene che sbarravano l’accesso di alcune vie della Città. Si appose poi sulla facciata della canonica, verso la piazza, un orologio a sfere, una delle quali, nel 1551, fu fatta da prete Paolo della Novella. Poi, nel 1567, mastro Vincenzo di Serafino di Vitorchiano rifece una sfera dell’orologio «cum artificio novo», perché segnasse giustamente le ore. Ma l’anno successivo l’artificio fu tolto perché mandava in rovina l’orologio.

La chiesa fu poi restaurata e decorata nel 1619 allorquando il Comune, per togliere l’umidità, concesse ottanta scudi per livellare il pavimento al pari della parte superiore, ed inoltre fu rifatta la porta per non consentire più agli animali di entrare. Verso la fine del ‘500 e inizi del ‘600 la chiesa era in decadenza, il de Gambara, vescovo dal 1566, sopresse la collegiata e nel 1620 la parrocchia fu unita a quella di santa Croce. Dalla Sacra Visita del 1622 si sa che era lunga ottantasette palmi e larga cinquantaquattro, circa metri venti per dodici. Aveva una sola navata e la porta era sull’attuale Corso, protetta da un loggiato, in cui si entrava grazie ad una gradinata che dava verso la piazza.

La sua storia termina nel 1655, quando ancora una volta una torre, che si elevava sulla piazza nel lato sud-ovest, cadde e abbatté la chiesa distruggendola quasi completamente, era il 23 Dicembre. Feliciano Bussi invece scrive che la torre cadde il 19 di quel mese «la quale non solo gittò a terra alcune case contigue, ma anche quasi tutta l’antica Chiesa di S. Stefano».

Sbaglia perché, come scrivo appresso, in quel giorno vi si celebrò un matrimonio. A ricostruirla ci provò il cardinale Francesco Maria Brancaccio, vescovo della città dal 1638, che convocò nel 1656 i parrocchiani i quali non vollero contribuire alla ricostruzione. Così fu deciso di demolirla, assieme alla loggia che in un primo momento sembrava volersi conservare per le botteghe che vi si aprivano.

La parrocchia fu soppressa, i beni della chiesa furono assegnati alla Cattedrale di san Lorenzo, ed i parrocchiani furono suddivisi tra le Chiese di san Simeone, san Giovanni in Zoccoli e di sant’Angelo in Spada. Fu anche concesso l’uso dei sassi della torre e della chiesa per costruire le carceri vescovili. L’archivio della chiesa, scrive Eugenio Sarzana (1783), fu allora trasferito alla Cattedrale insieme a quei paramenti, che, come ho scritto, per tradizione, si dicono appartenuti a san Bonifacio. 

Quest’ultimi consistono in camice, amitto, stola, manipolo e cingolo in metallo. Feliciano Bussi († 1741) scrive che il corpo del santo nel 1655 fu trasferito dalla Chiesa di santo Stefano alla Chiesa di san Sisto. Pochi giorni prima del disastro e precisamente il 19 Dicembre 1655 i genitori della beata Rosa Venerini vi celebrarono le nozze. L’altare maggiore presentava una tavola dorata con figure di vari santi, opera quasi certa di Francesco d’Antonio detto il Balletta, pittore viterbese, datata 1439 che si ritrova ancora presente nella Sacra Visita del 1639. Giuseppe Signorelli la fa probabile opera del Balletta.

Sotto l’altare maggiore erano le sepolture dei santi Bonifacio e Felicita. Niccolò Conciliati, fratello di Baldassarre, priore della chiesa dal 1427 al 1454, fece dipingere, nel 1430, da Bartolomeo di San Severino, un ciborio per l’altare maggiore, con raffigurati Cristo e gli Evangelisti. Lo stemma della famiglia Conciliati era: d’azzurro al leone rivoltato d’oro.

Presso l’altare maggiore era questa epigrafe, memore della pietà religiosa di Odulina e del consorte Angelo di Guiduccio Alvani: Mille trecentenis Domini currentibus annis / vigintique papatu stante Ioannis, / ista capella fuit reparata bonis Oduline ipsiusque viri sub honore pie Catharine. Quam dotaverunt vir et uxor denariorum / quingentis prorsus libris animabus eorum. / Angelus Alvani solitarius nomine dictus / ecclesie lector clarus fuit atque pudicus. Ergo rogare Deum non cessent scripta legentes / pro supradictis animabus carmina gentes.

Nella chiesa erano le seguenti cappelle: di santa Felicita, fondata nel 1309 da donna Guitta di Raniero Gatti, nella chiesa, nel 1639, si conservava ancora il corpo della santa. Nel 1322 la cappella era ancora dei Gatti e si menziona di nuovo nel 1502.

Nel 1517 fu di patronato dall’Arte dei Tavernari, Osti e Albergatori che la ricostruirono sotto il titolo di san Tommaso di Canterbury, fu eretta sulla parete sinistra, la trovo ancora nel 1622 con un quadro; di san Giovanni Battista, eretta intorno al 1313 da Nerio Pinzuto, della famiglia Gatti, che la volle collocata nella parete sinistra presso la porta d’ingresso. 

Nel 1329, dalla contessa vedova Gatti, venne donata alla cappella una vigna al Merlano; di santa Caterina, alla quale Odolina, vedova di Angelo di Guiduccio Alvani, concesse i propri beni nel 1320. Era ubicata presso l’altare maggiore, sulla parete destra, e la trovo menzionata ancora nel 1514; di san Bartolomeo, fu istituita da Muzio di Francesco nel 1348; di santa Maria, nominata nel 1363; di san Niccolò, nominata nel 1410 e nel 1437 la trovo di giuspatronato dell’Arte degli Speziali. 

Era posta nel loggiato esterno della chiesa, nella quale si entrava da altra gradinata. Vi erano alcune botteghe, in una delle quali svolgeva la sua attività commerciale il cronista Niccolò della Tuccia, che fu pure priore nel 1458. La cappella è ricordata ancora nel 1622; di san Bonifacio e santo Stefano, costituita nel 1468 da Pacifico Bonelli, nel 1543 l’Arte degli Speziali la fece restaurare.

Nel 1622 la cappella si dice ubicata a sinistra della chiesa con l’immagine sulla parete, ultima menzione si ha nel 1644; di sant’Antonio, citata nel 1473 e nel 1479 è detta di giuspatronato della famiglia Gatti, si trova nominata ancora nel 1622 ubicata sulla parete sinistra; di Ognissanti, nominata nel 1473 e per ultimo nel 1584; dei santi Giacomo e Cristoforo, esistente già nel 1491 di giuspatronato della famiglia Conciliati, è nominata ancora nel 1506; della Madonna, che nel 1571 è di giuspatronato dell’Arte dei Mercanti sotto il titolo Ave Gratia Plena, è ricordata sin dal 1529; della Natività, che nel 1538 era di giuspatronato dell’Arte degli Speziali e nel 1622 la trovo ancora di quell’Arte e posta sulla sinistra della chiesa; di san Carlo e del Crocifisso, nominate nel 1622 sulla parete destra della chiesa.

Corrado Buzzi colloca così gli altari: a destra dell’altare maggiore erano gli altari del ss. Crocifisso, di san Carlo e di san Tommaso di Canterbury; a sinistra quelli di san Bonifacio, della Natività della Madonna, di san Nicolò e di sant'Antonio.

Sulla parete interna della Casa Cassani, verso il Teatro del Genio, è un bassorilievo in pietra con raffigurato santo Stefano col libro dei vangeli sotto braccio, la palma del martirio e sulla medesima parete sotto al santo è lo stemma di Girolamo Bonelli, priore dal 1494 al 1503.

Scrive Cesare Pinzi: «Della Chiesa di San Stefano si vede tuttora [1893] un bassorilievo in pietra, coll’effige del Santo, sul muro di fianco della Casa Cassani che prospetta il Teatro del Genio, ed alcune pitture dei secoli XV e XVI nella contigua casa Giusti». Pinzi scrivendo, come visto, alla fine dell’800, ricorda alcune pitture in affresco dei secoli XV e XVI esistenti in Casa Giusti attigua a Casa Cassani appartenute alla chiesa.

A noi è giunto solo un frammento di questi affreschi a cui fa riferimento lo storico viterbese ed è custodito nella Chiesa di san Giovanni in Zoccoli. E’ la Madonna con Bambino collocata nella tavola dorata, offerta da Maria Giusti, vedova di Cesare Pinzi, a quella chiesa.

Palazzo Sterbini

A sinistra di chi entra in Piazza delle Erbe dal Corso Italia, oltre il Palazzo o Casa della Pace è il Palazzo Sterbini.

Nell’ingresso del palazzo, al n° civico 4 di Piazza delle Erbe, nell’atrio sono due capitelli appartenuti alla Chiesa di santo Stefano, con scolpite arcaiche figure umane con in testa diademi ed infule, venuti alla luce nel 1891, quando fu ricostruito il palazzo stesso terminato nel 1894, l’anno è riportato sugli architravi delle finestre.

Il palazzo appartenne alla famiglia Gualterio, lo trovo nominato nel 1661, essendo stato lasciato in eredità da Giulio, di quella famiglia, al cardinale Carlo di Trivulzio, suo nepote. Il loro stemma è: d’azzurro a tre fasce d’oro, sormontate da tre palle dello stesso.

Il blasone è sorretto da due leoni, mentre un terzo leone è sdraiato al suolo.

Sul lato destro del Palazzo Sterbini, tra i tetti delle case si può ancora vedere il basso e tozzo campanile della Chiesa di santo Stefano ricostruito alla fine del secolo XV da Girolamo Bonelli, che fu priore della chiesa dal 1494 al 1503, come ho già scritto. 

Su una facciata del campanile, è incastonata una pietra raffigurante un volto di diavolo, è possibile vederla recandosi su Via del Teatro del Genio.  Forse vi fu murata per scacciare gli spiriti maligni?